La soluzione di un sistema fallito

Ieri Intesa Sanpaolo, previo accesso alla data room, ha comunicato le proprie condizioni per rilevare la parte sana delle due agonizzanti popolari venete. Si tratta di un comunicato in stile “guai ai vinti”, ma non si può biasimare la banca milanese-torinese, che si limita a fare i propri interessi, soprattutto dopo aver immolato quantità industriali di denaro in Atlante e negli interventi del fondo di risoluzione, quello che ha “salvato” le quattro banche risolte a novembre 2015. Il biasimo va tutto altrove.

Per capire la portata della proposta di Intesa, occorre visualizzare uno stato patrimoniale: nel lato sinistro ci sono le attività, in quello destro ci sono le passività e il capitale proprio. Per le due venete occorre costituire una bad bank che accolga tutto quello che ha chiesto Intesa. In dettaglio, all’attivo della bad bank, se la proposta di Intesa venisse accettata, andrebbero i crediti deteriorati (sofferenze, inadempienze probabili ed esposizioni scadute), ma anche i crediti in bonis ad alto rischio, partecipazioni ed altri rapporti giuridici “non funzionali all’acquisizione”. Un meraviglioso eufemismo per indicare, tra le altre cose, il contenzioso con azionisti ed obbligazionisti subordinati delle due venete. Oltre ad assumere il minimo indispensabile di personale, con gli esuberi che finirebbero nella bad bank, magari dicendo che si dedicheranno al recupero delle sofferenze, o prepensionati con ampio anticipo, Alitalia-style.

Come si nota, l’estrema aggressività di Intesa nella ripulitura è destinata a gonfiare l’attivo della bad bank. Cosa andrebbe al passivo, quindi? Di fatto, i soli bond subordinati. La differenza? Semplice: la differenza è il capitale proprio (equity) della bad bank. E chi lo metterebbe? Ci sono due ipotesi: il “braccio volontario” del Fondo Interbancario tutela depositi, cioè il sistema bancario, in una sorta di obolo di sistema che farebbe rientrare dalla finestra quanto uscito dalla porta nei giorni scorsi, con il rifiuto delle banche a versare collettivamente 1,2 miliardi chiesti da Bruxelles. Ipotesi quindi assai improbabile. L’alternativa è che ce li metta lo stato italiano, invocando le norme europee sugli aiuti alla liquidazione di istituti di credito previsti dalla Comunicazione della Commissione Ue dell’1 agosto 2013. E qui sorge una piantagione di incognite.

Andiamo per gradi, per cercare di capire il costo per il contribuente italiano. Nell’ipotesi di ricapitalizzazione precauzionale (modello MPS, per intenderci) richiesta da Pier Carlo Padoan alla Ue, il costo pubblico era stimato in circa 5 miliardi di euro. Nel cosiddetto “intervento privato” di Intesa Sanpaolo, visto l’approccio di aggressiva ripulitura richiesta dal potenziale compratore, è del tutto verosimile che quella somma possa arrivare a raddoppiare. Accetterà, la DgComp di Margrethe Vestager? O metterà paletti per limitare l’esborso pubblico? C’è anche un altro aspetto, da considerare: quello degli aiuti di stato. Intesa Sanpaolo ha premesso che dall’acquisizione della polpa delle due venete non dovrà subire deterioramenti degli indici di capitalizzazione. Cioè che non dovrà fare aumenti di capitale, in pratica. Ma come è possibile che Intesa assorba 25 miliardi di fidi senza corrispondente assorbimento di capitale? Vai a capirlo. O meglio, pare che allo Stato sia chiesta una dote aggiuntiva, magari con la cessione gratuita a Intesa dei crediti d’imposta differiti (Deferred Tax Assets, DTA) delle due venete, che dovrebbero essere pari a 1,4 miliardi. Ma questi non basterebbero ad evitare assorbimento di capitale, quindi lo stato dovrebbe mettere altri soldi a favore di Intesa. Non sono un esperto, ma già solo questo puzza di aiuto di stato.

C’è troppo entusiasmo “di sistema”, intorno a questo cosiddetto piano. Che non è una liquidazione coatta amministrativa in senso stretto, né è un bail-in in senso proprio. È un ibrido in cui il contribuente italiano verrebbe massacrato, per la gioia di editorialisti e parassiti di sistema. Perché si forma una voragine in cui finiranno soldi pubblici, nella bad bank così costruita? Per due motivi: perché Intesa è aggressiva nel prendersi il meglio delle due venete e perché al passivo della bad bank non sono messe le obbligazioni senior, pari a circa 10 miliardi di euro. Morale della favola: per evitare il bail-in di 10 miliardi di senior, arriveremo a spendere una cifra stimata in 10-15 miliardi di denaro dei contribuenti italiani. Nota ad uso di editorialisti specialisti in liquidazioni alla Mulino Bianco: la liquidazione vera si fa conferendo al passivo della bad bank anche i bond senior. Poi si procede al realizzo delle sofferenze, e col netto ricavo si passa a soddisfare i creditori, secondo ordine di priorità.

Altra nota ad uso di editorialisti che farfugliano di “aiuto”, “sussidio” e di “effetti distributivi” a Santander per l’acquisto di Banco Popular: l’acquirente ricordiamo metterà nell’operazione 7 (sette) miliardi di aumento di capitale. I subordinati sono inceneriti sia nel caso italiano che in quello spagnolo. Se tanto mi dà tanto riuscirete, illustri editorialisti saccenti, a fare un bel pistolotto di denuncia dell’inverecondo sussidio dato ad Intesa, se la sua offerta verrà accettata? Ce la farete? Oppure prevarrà la cautela che deriva dal fatto che quella banca è grande creditore della vostra testata?

Quindi, in Vestager we trust. Un simile regalo di stato, che sfonda i contribuenti italiani, non può passare nella forma in cui si sta concretizzando. Per tutto il resto, s’odono termiti far festa per questa fantasmagorica “operazione di sistema”. Un sistema in ormai avanzato stato di decomposizione.

Addendum – Intanto, iniziano già i primi casi di amnesia selettiva, quelli che di solito fanno una narrativa.:

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