L’Autorità garante della concorrenza e del mercato (per gli amici, Antitrust), ha condannato a sanzione pecuniaria alcune banche italiane che hanno collocato alla clientela diamanti da investimento. Nelle risultanze dell’indagine Antitrust emerge soprattutto un’evidenza: l’attività era un assai classico schema di Ponzi. Episodi come questo rendono davvero difficile prendere sul serio alcuni compunti discorsetti pronunciati ogni anno il 31 ottobre. Non per Halloween ma per la Giornata mondiale del Risparmio.
I due intermediari che collocavano diamanti tramite le banche sono stati ritenuti colpevoli di
«[…] informazioni ingannevoli e omissive diffuse attraverso il sito e il materiale promozionale dalle stesse predisposto in merito: a) al prezzo di vendita dei diamanti, presentato come quotazione di mercato, frutto di una rilevazione oggettiva pubblicata sui principali giornali economici; b) all’andamento del mercato dei diamanti, rappresentato in stabile e costante crescita; c) all’agevole liquidabilità e rivendibilità dei diamanti alle quotazioni indicate e con una tempistica certa; e d) alla qualifica dei professionisti come leader di mercato»
In realtà, scrive l’Antitrust,
«[…] le quotazioni di mercato erano i prezzi di vendita liberamente determinati dai professionisti in misura ampiamente superiore al costo di acquisto della pietra e ai benchmark internazionali di riferimento (Rapaport e IDEX); l’andamento delle quotazioni era l’andamento del prezzo di vendita delle imprese annualmente e progressivamente aumentato dai venditori»
Ma soprattutto, e qui arriviamo allo schema di Ponzi,
«[…] le prospettive di liquidabilità e rivendibilità erano unicamente legate alla possibilità che il professionista trovasse altri consumatori all’interno del proprio circuito»
Frase breve, essenziale, disarmante. Senza nuovi acquirenti, il giochetto si impianta e son dolori. Quale la responsabilità delle banche? L’utilizzo di materiale informativo predisposto dalle due società; e sin qui ovvio e banale, nel senso che se la banca entra in una partnership commerciale, è del tutto possibile che finisca ad utilizzare, con limitate modifiche ed adattamenti, il materiale “informativo” predisposto da chi presta il servizio. Ma anche
«[…] il fatto che l’investimento fosse proposto da parte del personale bancario e la presenza del personale bancario agli incontri tra i due professionisti e i clienti, forniva ampia credibilità alle informazioni contenute nel materiale promozionale delle due società, determinando molti consumatori all’acquisto senza effettuare ulteriori accertamenti»
Della serie: quello che vendi entro le tue mura, fornisce la misura della tua correttezza e credibilità. Anche qui, semplice e disarmante. Quindi, per riepilogare: uno schema di Ponzi a cui le banche hanno prestato la propria rete commerciale. Uno schema nato in un contesto di bassi rendimenti di mercato ed anche di timore per la solvibilità dello stato italiano e del suo debito sovrano.
Di rilievo il fatto che Consob e Banca d’Italia avessero dato il via libera all’attività di vendita. Consob ha spiegato che
«[…] la disciplina di trasparenza e correttezza sui servizi di investimento non è di per sé applicabile alla vendita di diamanti o di altri beni materiali, anche qualora avvenga tramite il canale bancario, a meno che tale vendita non si configuri esplicitamente come offerta di un prodotto finanziario, grazie alla esplicita previsione, anche tramite contratti collegati, di elementi come, ad esempio, promesse di rendimento, obblighi di riacquisto, realizzazione di profitti ovvero vincoli al godimento del bene»
Questo è un punto molto rilevante. Ci spiega che, se non si tratta di un servizio di investimento ma di vendita di qualsiasi bene materiale, non ci sono obblighi di trasparenza e correttezza. In altri termini, se le banche decidessero di vendere marmo nero del Perù o altro prodotto assimilato e privo di prezzi di mercato su base continua e regolare, ma si limitassero ad inventarsi uno pseudo-mercato fatto da “esperti” presentati come tali, che interpolano singoli prezzi verificatisi magari a mesi di distanza e forse manco verificabili, e li incaricassero di agire come puri broker, cioè di mettere in contatto venditori e compratori, nulla osta, e andate con dio o chi per esso.
Quanto a Banca d’Italia, il consiglio alle banche è stato quello di fare attenzione al rischio reputazionale prodotto da tali attività.
Ma il “mercato” semplicemente non era tale. Come si può leggere nel documento dell’Antitrust,
«[…] la “quotazione” del diamante IDB pubblicata periodicamente sul Sole24Ore non è un parametro tratto da rilevazioni di mercato e poi pubblicato a cura di IDB: è soltanto il prezzo – solo in parte riferibile al valore della pietra – fissato autonomamente da IDB secondo le proprie convenienze commerciali, aumentato progressivamente nel tempo sulla base di parametri definiti discrezionalmente dalla società»
Chiaro, no? Si prende un andamento storico, verificabile o meno, ci si costruiscono sopra estrapolazioni e si segnala ai potenziali acquirenti l’attrattività di un investimento così incredibilmente stabile nella sua remuneratività. Anche qui, elemento caratteristico di uno schema Ponzi. Il meglio deve ancora arrivare, però: leggiamo dal punto 62 dell’istruttoria Antitrust:
«Più nel dettaglio, al costo della pietra all’origine si aggiungono infatti le seguenti voci, di cui si riporta il peso percentuale medio sul prezzo pagato dal consumatore:
– costo di acquisto della pietra (“costo del venduto”): [20-40%];
– costi doganali / Trasporto Assicurato / Oneri generali: [1-5%];
– copertura assicurativa / custodia: [0-1%];
– costi rete commerciale: [1-5%];
– commissione banca: [10-20%];
– margine IDB: [20-40%];
– IVA (22%): [10-20%]»
Non male, no? Ma
«Nel materiale promozionale diffuso non è presente alcuna indicazione che rappresenti, seppure a grandi linee, che il costo di acquisto della pietra ha una incidenza minoritaria sul prezzo totale di acquisto»
Non solo:
«Di tale scomposizione e della differenza esistente tra la quotazione/prezzo IDB e il costo della pietra non vi è traccia nella documentazione consegnata ai clienti. Tale informazione non era neppure nota ai funzionari bancari che avevano segnalato ai risparmiatori questa opportunità di investimento, come emerge da alcune mail in cui i funzionari bancari chiedono delucidazioni a IDB sulla notevole differenza nelle quotazioni»
E insomma, pare che neppure le banche fossero consapevoli di quello che vendevano. L’unica cosa che evidentemente le ha convinte a collocare le pietruzze erano i margini commissionali riconosciuti.
Di tutto rilievo è l’affermazione di Agcm secondo la quale la puntata della trasmissione Report che ha trattato di queste operazioni avrebbe avuto la funzione di catalizzatore del collasso dello schema, a causa della fortissima accelerazione di richieste di vendita, che ha sbilanciato il “mercato” promosso dalle due società specializzate. Verosimile, ma questa di solito è la fine degli schemi di questo tipo: un evento avverso che genera un passaparola che innesca un andamento esplosivo di vendite.
Che dire, quindi? Che le banche sono state come minimo superficiali nel promuovere la commercializzazione di questi prodotti, in cui (forse) hanno visto la possibilità di alta marginalità senza le solite strettoie della regolamentazione e della trasparenza imposta nella vendita dei prodotti finanziari. Una minore “trasandatezza” o “benevola negligenza” nel valutare le dinamiche di questo mercato artificiale, che poi altro non era che attività di brokeraggio, avrebbe evitato questo esito. Ma il mondo esiste sulle asimmetrie informative, come noto, e le banche fanno budget pluriennali in cui le commissioni su “servizi” esplodono. I clienti sono avvertiti.
Anche qui, un pensiero solidale ai bancari che si sono trovati a scrivere documenti promozionali destinati alla propria rete commerciale, in cui veniva loro “suggerito” di indicare che “l’investimento era liquido”, “a bassa volatilità” e, in caso queste argomentazioni non fossero state sufficienti, che un vice d.g. o consimile divinità era il grande sponsor dell’operazione, e più non dimandare.
Ora è verosimile attendersi azioni risarcitorie della clientela, per minimizzare il danno reputazionale. Ma certamente non un bella pagina nel rapporto molto problematico con i clienti. Attendendo il prossimo comizietto alla Giornata Mondiale del Risparmio.
P.S. La vicenda dei diamanti venduti al retail dalle banche è stata certamente resa popolare dalla grande forza mediatica e diffusionale di Report, a ottobre 2016, ma la prima inchiesta sul tema è comparsa su Plus del Sole 24 Ore nel novembre 2014.