Dopo che ieri il mercato azionario statunitense ha sofferto la peggiore seduta dal 2011, portandosi dietro Asia ed Europa, inizia il tentativo di leggere l’evento ed identificarne le determinanti. Per certi aspetti è un tentativo futile, per altri conferma in prospettiva storica che i mercati sono proni a correzioni molto violente.
A leggere le analisi, tutto pare essere iniziato dal dato sul mercato del lavoro statunitense di gennaio, pubblicato venerdì scorso. In esso c’è un numero che ha reso molto nervosi i mercati obbligazionari, i cui rendimenti erano peraltro in risalita da tempo: i guadagni orari medi, cresciuti del 2,9% su base annua, contro attese per una crescita del 2,6% e con revisione al rialzo anche del dato di dicembre, da 2,5% a 2,7%.
Questo numero ha dato il via a speculazioni ed elucubrazioni circa l’imminente ritorno dell’inflazione salariale, con un mercato del lavoro molto tirato, con disoccupazione al 4,1%. Da qualche tempo, i mercati stavano prezzando pressioni inflazionistiche vere o presunte, come si può evincere osservando la risalita lenta ma costante dei breakeven inflation rate, cioè le attese di inflazione incorporate nei titoli di stato legati all’andamento dei prezzi. Sulla scadenza decennale si è passati da circa 1,7% di fine giugno a 2,15% del 2 febbraio.
Unendo i puntini e le tessere del puzzle, i mercati hanno iniziato ad innervosirsi: mercato del lavoro molto tirato, scomparsa del rischio deflazione e da ultimo apparente comparsa del maggiore catalizzatore: la crescita delle retribuzioni. Per un mercato caratterizzato da una banca centrale che sta lentamente normalizzando i tassi d’interesse ed uscendo da anni di acquisti di titoli, il sospetto è stato immediato: la Fed è rimasta “dietro la curva”, cioè sta alzando troppo poco e troppo tardi i tassi, e rischia di dover strangolare la congiuntura per recuperare?
Altro imputato, come catalizzatore del crash, è il livello eccezionalmente basso di volatilità prezzata dai mercati. Da anni un contesto irenico, in cui gli operatori vendono strutturalmente volatilità, contando sul fatto che le banche centrali riescano a tenere bassa la volatilità macroeconomica, cioè a pilotare la congiuntura senza scossoni. Da molto tempo si osservava con preoccupazione il livello estremamente basso dell’indice Vix sulla borsa americana, noto come “il barometro della paura”, nel senso che traccia le fasi di avversione al rischio, e di tutte le altre metriche di volatilità, ai minimi storici.
Il Vix ha iniziato a crescere a passo di carica dopo i dati sul mercato del lavoro, ed i sospetti sul crash si appuntano su strumenti e tecniche gestionali che hanno la vendita di volatilità come perno. Vi sono Etf che vendono volatilità e strategie di gestione basate sul volatility targeting, cioè che puntano ad un prefissato livello di volatilità, e aggiustano gli investimenti in conseguenza. Ad esempio, se un fondo ha un obiettivo numerico dichiarato di volatilità ed il mercato è “agitato”, ecco che quel fondo aumenterà la propria quota di liquidità.
Del tutto evidente che, se la volatilità aumenta ed i fondi dediti al volatility targeting si mettono tutti dalla stessa parte, le cose si mettono male. Tra le strategie di questo tipo vi sono i Commodity Trading Adviser, o CTA, e i fondi di risk parity, che si indebitano per mantenere allineata la volatilità tra le classi di investimento. In complesso, si stima che questi prodotti valgano tra 500 e mille miliardi di dollari, anche se i loro gestori sostengono di non aver la massa critica per spostare il mercato in modo significativo.
Il punto vero è che alla fine non si inventa nulla, se solo ci si ricordasse che il grande crash del 19 ottobre 1987 a Wall Street fu imputato alle strategie di portfolio insurance, che facevano esattamente la stessa cosa: ribilanciare il portafoglio su determinati segnali di mercato. Oggi abbiamo il mitologico trading algoritmico da incolpare ma i numeri della carneficina non sembrano essere troppo diversi da quelli di quel crash di un’altra era geologica. Ed ora veniamo alle solite domande di questi momenti.
Durerà? Ah, saperlo. Nel senso che ci sono fondi che si muovono velocemente ed altri più lenti, a reagire a segnali di ribilanciamento. Quindi si deve mettere in conto un periodo di necessaria stabilizzazione, anche faticosa.
C’è una base fondamentale nel movimento, nel senso che i mercati anticipano un peggioramento congiunturale? Anche qui, i mercati si muovono cercando di anticipare sempre i segnali congiunturali. Il rischio maggiore, come detto, è che l’inflazione “sbocci”, prendendo in contropiede le banche centrali. Come spesso si è letto e sentito, in questi mesi di reiterati rialzi borsistici, i mercati apparivano “prezzati per la perfezione”, che è un modo molto elegante per dire che sono diventati piuttosto costosi.
C’è tuttavia da tener presente un punto: i mercati non sono l’economia, nel senso che si portano molto avanti (si fanno dei film, direbbe qualcuno) rispetto alle tendenze reali. Tuttavia, quando i ribassi divengono importanti, l’economia finanziaria retroagisce con quella reale, indebolendola. Non siamo a questo punto, per carità, ma meglio aver presente questo concetto. Per tutto il resto, il sole continuerà a sorgere.