“L’America è tornata”, ma ritroverà il suo posto a tavola?

Ieri il presidente eletto degli Stati Uniti, Joe Biden, presentando la propria squadra di nominati ai posti chiave di politica estera e sicurezza nazionale, ha detto che il suo “non sarà il terzo mandato di Obama”, inteso non nel senso che l’ex presidente si troverà in qualche modo a ricoprire, direttamente o indirettamente, ruoli rilevanti nella nuova amministrazione ma che il mondo che attende la presidenza Biden-Harris è molto diverso da quello delle due amministrazioni Obama-Biden. Ma chi o cosa ha causato questo drastico cambio di panorama? L’azione isolazionista di Donald Trump o l’operare di altre e ben più profonde forze di scenario globale, col maggiore epicentro in Asia? Domanda retorica, credo.

L’ascesa cinese è sin qui stata irresistibile, e la nuova amministrazione di Washington dovrà scegliere che fare, tra accomodamento e contenimento, anche rispetto al fatto che l’influenza geopolitica cinese in Asia non solo è ormai difficilmente reversibile ma Pechino, dopo aver normalizzato Hong Kong, punterà verso Taiwan, e gli americani dovranno capire che risposta dare.

Ma anche senza arrivare a questo zenit di crisi, che pure oggi è più vicino, Biden dovrà tener presente che la potenza economica cinese in Asia è un dato di fatto, in parallelo all’uscita di Trump da importanti accordi regionali di libero scambio, come il TPP, e al mancato ingresso degli Usa nel nuovo Regional Comprehensive Economic Partnership (RCEP), versione meno ambiziosa della Trans Pacific Partnership (TPP) ma proprio per questo destinata a funzionare senza particolari intoppi, siglato dai dieci paesi Asean oltre a Corea del Sud, Giappone, Australia, Nuova Zelanda e, soprattutto, Cina, da molti vista come beneficiaria principale dell’accordo.

In totale, un terzo della popolazione mondiale, e il 29% circa del Pil globale. Una zona di libero scambio più grande della Ue e del vecchio Nafta, ribattezzato USMCA. Un accordo da molti considerato non troppo ambizioso ma che potrebbe rivelarsi diversamente, soprattutto grazie alle regole di origine che consentiranno di rimuovere molte tariffe nei prossimi anni.

Come che sia, la Cina proseguirà col suo mix di carote liberoscambiste e bastone nazionalista, mentre gli Stati Uniti sono fuori da accordi di libero scambio importanti nella regione. Questo è un fatto. Ecco perché il cosiddetto pivot asiatico è destinato a diventare sempre più rilevante, nella dinamica delle relazioni internazionali, e con alta probabilità a essere identificato come il test dell’ipotesi di declino di lungo termine della potenza globale americana.

La wild card della regione resta l’India, rimasta fuori dal RCEP per timore che perdere il controllo delle nascenti industrie nazionali a causa di trattati di libero scambio finisca per minare l’autonomia del paese ed il suo peso politico prospettico.

La proiezione di potenza cinese si estende ovviamente all’Europa, dove i produttori di auto tedesche hanno di recente “scoperto” che il mercato cinese è ormai vitale, per i loro conti. Gli americani, nel vecchio continente, dovranno poi prendere posizione su temi fondamentali come la tassazione delle multinazionali tecnologiche. Che farà Biden? Consentirà un accordo fiscale, in sede Ocse, che di fatto elimini in Europa l’elusione fiscale di proprie aziende oppure si metterà di traverso e di riflesso manderà a monte i sogni della Ue di reperire imponenti risorse fiscali proprie, con cui porre le basi per la propria evoluzione?

E che atteggiamento assumerà l’amministrazione Biden in Medio Oriente, rispetto ad esempio al trattato nucleare con l’Iran, affondato da Trump? E all’Arabia Saudita di Mohamed bin Salman? E alla Turchia appartenente alla Nato ma che si muove con crescente spregiudicatezza nella regione, al punto da creare problemi a Vladimir Putin? E che rapporto con l’autocrate eterno di Mosca? E Israele, che già oggi appare orfano di Trump e che si muove con legittima spregiudicatezza per rafforzare una “coalizione” regionale in chiave anti-iraniana che potrebbe finire in rotta di collisione con un’America troppo dialogante con Teheran?

Agenda fitta, come ad ogni cambio di amministrazione. E come sempre, gli Usa si troveranno col loro eterno dilemma: realisti o idealisti? Dove finisce l’internazionalismo liberale e dove inizia il realismo dei rapporti di forza? Soprattutto in un periodo storico in cui il concetto di democrazia, per come lo conosciamo, pare sempre più sfumato o persino in via di superamento, per dirla in modo brutale, a causa della proiezione di potenza della Cina.

A Trump non è mai fregato granché di concetti come l'”esportazione della democrazia”, ma al contempo si è rivelato una vera nullità nel conseguimento di risultati di politica estera per l’America: peccato mortale, per un realista. Perché non basta dire “finiamola con le guerre infinite”, quando poi ti rendi conto che ti sei indebolito, di riflesso, anche sul resto.

Senza scordare che gli americani dovranno trovare un difficile equilibrio tra la cooperazione e la promozione democratica globale e la devoluzione a tal fine di risorse economiche che potrebbero invece essere usate per attenuare le diseguaglianze domestiche. La spinta dell’ala sinistra dei Democratici, in questa circostanza, porterà qualcuno a provare nostalgia per il protezionismo di Trump, che pure ha prodotto il nulla e costi aggiuntivi a carico di imprese e consumatori americani.

Perché non basta parlare di “ripristinare la leadership americana”. Serve anche capire a quali fini e con quali messaggi per il resto del mondo. Altrimenti, la fiaba bella dell’eccezionalismo americano è destinata a un triste epilogo.

La semplificazione populista tornerà presto a far sentire la voce delle proprie sirene, in un mondo sempre più complesso. Biden dovrà confrontarsi con le molte e abituali contraddizioni della politica estera americana ma soprattutto con l’assalto cinese al suo primato economico. Non basterà dire “l’America è tornata”, per ritrovare il proprio posto al tavolo e a tavola.

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