Siamo nell’era della transizione ecologica, un periodo che causerà molte tensioni sociali e darà fiato a populismi di ogni colore e gusto. Dentro questa cornice si posiziona l’azione dell’Amministrazione di Joe Biden, che per molti aspetti ricalca l’impronta protezionistica di Donald Trump, mettendosi in una non semplice posizione riguardo alla sua rinnovata professione di fede multilateralista, soprattutto ora che c’è da contenere la Cina. Tutto ciò per dire che il mondo resta un luogo molto complesso.
Nell’ambito del disegno di legge Build Back Better, che dovrebbe rappresentare la firma dell’attuale inquilino della Casa Bianca e che attende di fare progressi in Senato, è previsto che gli acquisti negli Stati Uniti di auto a batteria e ibride godranno di un credito d’imposta di 12.500 dollari.
Sussidio alle elettriche fatte da manodopera sindacalizzata
Di tale sussidio, 4.500 dollari andranno solo a chi acquisterà un’auto prodotta negli USA in aziende i cui dipendenti sono sindacalizzati. Altri 500 dollari di “monte-sussidi” andranno a chi acquisterà auto con batteria Made in USA. Tali sussidi di impronta protezionistica e “progressista” hanno fatto inferocire i costruttori tedeschi. Non senza ragione.
L’associazione dei carmaker tedeschi, VDA, fa notare agli americani che i sussidi erogati dalla Germania per l’acquisto di vetture elettriche e ibride sono disponibili a chiunque, indipendentemente da luogo di produzione e condizioni sindacali nelle fabbriche.
Lo scorso anno i produttori tedeschi hanno assemblato negli Stati Uniti 742.000 vetture, dando lavoro a oltre 60.000 persone. Audi, Volkswagen e BMW sono tra i maggiori venditori di ibride plugin ed elettriche pure negli USA. Ma Audi non ha impianti nel paese, mentre VW e BMW non hanno sindacato in quegli impianti.
Tedesche e Toyota in guerra
Analoga irritazione è stata espressa da Toyota, i cui impianti americani non sono sindacalizzati. L’azienda giapponese a sua volta ha iniziato una campagna di “sensibilizzazione”, sia del legislatore che dell’opinione pubblica americana, sostenendo che tale misura indica che avere più veicoli elettrici per le strade è obiettivo secondario rispetto a quello di promuovere la sindacalizzazione.
Nel frattempo, ambasciatori dei paesi con impianti di assemblaggio negli Stati Uniti e la stessa Commissione europea, stanno esercitando pressione sui senatori americani affinché cambino idea. Notare che la Commissione è impegnata a promuovere la sindacalizzazione nella Ue mediante la nascitura direttiva sul salario minimo, che in Italia è stata regolarmente equivocata e immolata sull’altare della demagogia da analfabetismo di sola andata. Un mondo decisamente complesso.
Il disegno di legge Build Back Better colpisce tuttavia anche produttori americani. Alcuni modelli elettrici di Ford sarebbero esclusi dai 4.500 dollari di sussidio perché prodotti in impianti messicani. Difficile sfuggire all’impressione che il nuovo trattato commerciale NAFTA, che ora si chiama USMCA (US, Mexico, Canada) sia tirato e stirato per catturare maggiori benefici nazionali e indurre al reshoring.
Continuità con Trump
La continuità di fondo con le misure protezionistiche di Donald Trump si è colta anche nel mantenimento dei dazi sulle importazioni di acciaio e alluminio, che solo di recente sono stati sospesi per la Ue ma non per il Regno Unito. Il settore dell’acciaio rappresenta da sempre una roccaforte elettorale Democratica, ma i suoi lavoratori non appaiono esattamente in cima alle classifiche dei lavoratori più schiaffeggiati dalla globalizzazione.
Certo, c’era da rispondere all’eccesso di capacità produttiva cinese, che rischia di affondare tutto il settore; ma invocare la sicurezza nazionale anche per le importazioni dall’Europa appare una forzatura, per usare un eufemismo.
Senza contare che acciaio e alluminio sono la base di una matrice che coinvolge innumerevoli produzioni manifatturiere domestiche. Detto in altri termini, rendere più costosa questa materia prima vuol dire far lievitare i costi di produzione per innumerevoli manufatti. La stessa idea di fare redistribuzione a mezzo di dazi in questi settori è simile, secondo alcuni, al tentativo di tagliarsi le unghie usando un tagliaerba.
Che dire, quindi? Alcune cose. In primo luogo, che esiste una oggettiva pulsione protezionistica americana che rischia di entrare in rotta di collisione col desiderio dell’attuale presidenza di perseguire alleanze internazionali per affrontare la nuova doppia guerra fredda, con la Russia e -soprattutto- con la Cina.
Commercio internazionale minacciato
Poi, che tale pulsione protezionistica tende a produrre barriere non tariffarie centrate anche su variabili quali il tasso di sindacalizzazione, quando al potere c’è un partito liberal. Tutte situazioni che erodono il libero scambio e tendono a innalzare in modo strutturale il livello dei prezzi.
Altre forme di barriere non tariffarie sono date da misure quali il Buy American, che vincola le pubbliche amministrazioni a comprare prodotti nazionali. Con buona pace delle levate d’ingegno britanniche, che mirano a far accedere proprie aziende al procurement degli stati americani. Forse il Regno Unito farebbe prima a chiedere l’annessione all’Unione, come nuova stella. Si chiuderebbe il cerchio aperto con la Rivolta del the.
Il commercio internazionale è un processo complesso e delicato, soggetto a continue sollecitazioni, tra avanzamenti e regressioni. Un’opera infinita dove i governi nazionali cercano di porre in equilibrio molteplici interessi domestici. In un’epoca di nuovi nazionalismi, di desta e di sinistra, il rischio di pericolose (e inflazionistiche) involuzioni è molto elevato.