Ricordate cosa disse la presidente della Commissione Ue, Ursula von der Leyen, dopo gli “accordi” scozzesi di Turnberry con Donald Trump? All’incirca, che da quel momento ci sarebbero state certezze. Certamente, ma di tipo differente da quelle che Von der Leyen e i governi europei si attendevano e auspicavano. La certezza sta diventando quella dell’assenza di certezze, ma anche di questo vi scrivo e vi dico da molto tempo.
In effetti, da quegli accordi erano rimaste fuori quelle che gli europei definiscono le “linee rosse” generate dai propri princìpi: ad esempio la normativa digitale ma anche quelle ambientali (queste a dire il vero non sono più tanto rosse e neppure verdi), e la protezione sociale contro lo sfruttamento.
Il position paper americano
Ora, secondo un position paper statunitense di cui il Financial Times ha preso visione, gli americani hanno deciso di passare alla fase 2, dopo aver portato a casa un accordo sulle merci in cui gli europei, in fretta e furia e per preservare soprattutto il proprio settore auto, hanno azzerato i dazi sui beni industriali americani per avere la riduzione dei dazi su auto e componentistica dal 27,5 al 15 per cento.
Ora gli americani chiedono a Bruxelles di revocare i requisiti che impongono alle aziende non Ue di produrre piani di transizione climatica, oltre a chiedere che la Ue modifichi la legislazione ambientale sulle catene di fornitura, per escludere le aziende americane e altre provenienti da “paesi con elevati standard di due diligence aziendale“. Una mossa che fa parte della strategia di Trump di costringere i paesi partner ad arretrare sulle politiche contro il cambiamento climatico, come conferma anche la pressione di Washington sulla World Bank e altri prestatori multilaterali per aumentare i prestiti su progetti che coinvolgono combustibili fossili.
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Le norme europee sulla due diligence aziendale, entrate in vigore l’anno scorso, richiedono alle aziende che operano nella Ue di identificare eventuali danni ambientali e sociali nelle loro catene di approvvigionamento, nel tentativo di combattere lavoro forzato e inquinamento. Nel documento, l’amministrazione Trump descrive questa legislazione come una “seria e ingiustificata eccessiva regolamentazione” che “impone oneri economici e normativi significativi alle aziende statunitensi”, rappresentando di fatto, secondo Washington, una rilevante barriera non tariffaria. Di conseguenza, anche in questo caso, come avvenuto per il capitolo sulle merci, non è offerta alcuna concessione in cambio.
Le aziende americane temono che le normative sulla due diligence le espongano a un crescente rischio di azioni legali in un mercato già conflittuale, permettendo a gruppi attivisti di perseguirle per lavoro minorile e danni ambientali nelle catene di approvvigionamento. Secondo funzionari statunitensi, diverse aziende americane hanno dichiarato che dovranno interrompere l’attività nell’Ue a causa delle normative sulla due diligence e sulla rendicontazione della sostenibilità, che richiedono alle aziende di riferire su centinaia di dati puntuali relativi alla loro impronta ambientale. Le violazioni delle normative sulla due diligence potrebbero comportare sanzioni fino al 5 per cento del fatturato globale. La legislazione è stata attaccata dalle compagnie petrolifere e del gas statunitensi, che temono “impatti devastanti” sui loro conti.
Una lunga lista di doglianze e minacce
Ma la lista delle lamentele di Washington è molto lunga, e non promette nulla di buono riguardo alla “certezza” dei rapporti commerciali tra le due sponde dell’Atlantico. Gli americani si oppongono a una prossima legge anti-deforestazione dell’Ue, che vieterebbe l’importazione di beni come legname e cacao se i produttori non riescono a dimostrare che nessuna foresta è stata abbattuta nella loro produzione. Bruxelles il mese scorso ha deciso di rinviare di un altro anno le normative sulla deforestazione, con la motivazione ufficiale della mancata prontezza del proprio sistema informatico.
Gli americani hanno anche manifestato contrarietà riguardo alla tassa frontaliera Ue sul carbonio (Carbon Border Adjustment Mechanism, CBAM), che si applicherà a partire dal prossimo anno alle industrie inquinanti al di fuori della regione, come i produttori di acciaio, alluminio, vetro, cemento, fertilizzanti.
Fuori dalla old economy, ma non meno gravida di conseguenze anche pesanti per gli europei resta la feroce motivazione delle Big Tech a far saltare il Digital Markets Act e il Digital Services Act della Ue. Di recente, Apple si è vocalmente lamentata della normativa sul DMA, tra l’altro con la motivazione (che trova in Trump orecchie molto sensibili) di essere l’unica svantaggiata sul mercato europeo, a beneficio di Samsung e dei produttori cinesi, in quanto costretta ad aprire il suo walled garden. Ai margini ma non troppo, resta la questione delle Digital Services Tax dei singoli paesi europei, che pare destinata a non restare impunita da parte della Casa Bianca.
Il fatto è che queste cosiddette linee rosse di Von der Leyen stanno venendo attaccate anche dai governi europei, in particolare quelli francese e tedesco, che considerano queste norme come zavorre competitive. Ormai immersa in una crisi esistenziale che rischia di trasformarsi in deindustrializzazione conclamata, la Ue è spinta all’angolo dagli americani, che vogliono strapparle l’illusione di essere la “potenza regolatoria” del pianeta, senza essere quella politica o militare. Per come stanno mettendosi le cose, il tentativo potrebbe riuscire.
Allo stesso modo, gli europei (in senso lato) si illudono di aver messo dei punti fermi e di essere al riparo da quelle che qualcuno potrebbe frettolosamente liquidare come “bizze” di Trump, ma che invece appaiono ogni giorno di più una precisa strategia di demolizione del potere negoziale europeo, oltre che di quello economico.
Ora tocca ai farmaci
In Regno Unito, l’ammaccato governo di Keir Starmer ha fatto sapere che sarebbe pronto a pagare di più, fino al 25 per cento, per i farmaci acquistati dal servizio sanitario britannico. Di fatto è una capitolazione alle richieste delle aziende farmaceutiche, a loro volta messe sotto pressione da Trump che chiede loro di praticare agli americani il minore prezzo praticato ad altri paesi, la clausola della nazione favorita, accusando gli altri paesi di fare free loading sull’innovazione che nasce sul suolo americano.
Le aziende, per proteggere la loro redditività di fronte a questa minaccia, si preparano a concessioni. Sia aumentando la presenza di centri di produzione negli Stati Uniti sia, soprattutto, chiedendo alla sanità dei paesi europei di pagare di più. Altrimenti, è il sottinteso ma non troppo, delocalizziamo. Per Londra, che ha l’ambizione di diventare centro di rilevanza globale per le life sciences, sarebbe un colpo mortale.
AstraZeneca ha annunciato il mese scorso di aver messo in pausa un investimento di 200 milioni di sterline per ampliare il suo sito di ricerca di Cambridge. A gennaio, aveva cancellato un investimento da 450 milioni di sterline in un sito per la produzione vaccinale nel nord dell’Inghilterra, citando la prevista riduzione del contributo pubblico. Al contempo, ha annunciato una spesa di 50 miliardi di dollari per potenziare il proprio centro di produzione e ricerca negli Stati Uniti. Merck ha abbandonato l’ipotesi di realizzare un nuovo centro ricerche a Londra. Complessivamente, si stima che da inizio anno Big Pharma abbia messo in pausa 2 miliardi di investimenti in Regno Unito.
I produttori farmaceutici lamentano la burocrazia e i costi del contesto britannico. Soprattutto, il meccanismo di clawback tax, simile al nostro payback, che impone alle aziende di restituire allo stato parte dei ricavi, per finalità di controllo della spesa pubblica farmaceutica. Tale restituzione, in Regno Unito, è maggiore della media europea.
Resta da capire dove il governo Starmer troverà i fondi per pagare di più i farmaci. Il rischio è quello di sacrificare lo smaltimento delle liste d’attesa. Nel frattempo, cresce l’attesa per le misure che la Cancelliera Rachel Reeves annuncerà il prossimo 26 novembre, col prossimo budget. C’è da colmare un buco di bilancio che pare allargarsi ogni settimana di più. E per fortuna Starmer camminava staccato da terra, annunciando il deal con gli Stati Uniti, mesi addietro, come conferma della special relationship tra i due paesi. Ma già allora c’era assai poco di cui entusiasmarsi.
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Da questi episodi si intuisce agevolmente che Trump sta perseguendo il suo programma, che è soprattutto quello di smontare pezzo a pezzo la costruzione europea. Il Regno Unito, che da quella costruzione è uscito, potrà utilmente essere tenuto al guinzaglio, essendo entità ormai piccola e marginale sullo scacchiere globale e in termini di rapporti di forza.
Nel frattempo la Ue, o meglio i suoi stati nazionali, titolari di altrettanti servizi sanitari, attendono che si compia lo stesso destino britannico. A Bruxelles potranno continuare a dire che è tutto in una botte di ferro, “perché sui farmaci abbiamo negoziato dazi al 15 per cento”. Che formalmente è vero. La realtà tuttavia riesce ad essere estremamente informale, oltre che liquida.
(Photo by whitehouse.gov)



