C’era una volta la responsabilità erariale

di Luigi Oliveri

Egregio Titolare,

La riforma della Corte dei conti e della responsabilità erariale è caratterizzata da aspetti estremamente tecnici, sui quali ovviamente questi pixel glissano. Vi sono, comunque, aspetti generali che non vanno sottaciuti, tra i quali quello principale è la rinuncia definitiva al controllo sui risultati dell’azione amministrativa quale metodo indispensabile per la sua efficienza.

Qualcuno ritiene che un’azienda seria di produzione di auto, cioccolato, elettrodomestici o servizi non controlli la qualità dei propri prodotti? Altri pensano che nessuno si interessi del danno che l’azienda possa subire dalla qualità scadente dei prodotti o dai danni derivanti dalla cattiva programmazione, gestione e tenuta dei conti, conseguente a scelte degli amministratori?

Sebbene con un’impostazione da vedere sotto la diversa angolazione necessitata dalla circostanza che la pubblica amministrazione non agisce per perseguire il profitto, ma per garantire gli interessi generali connessi alle proprie iniziative sostenute con la spesa pubblica finanziata dalle tasse, anche gli enti pubblici dovrebbero obbedire alle medesime logiche. Anzi, i controlli risultano tanto più necessari per l’azione della PA perché manca il controllo del “cliente”: i servizi sono erogati dagli enti con pochissima possibilità di libera scelta, visto che gran parte di essi non sono all’interno di un sistema di mercato.

Controlli in estinzione

Dunque, sarebbe assolutamente necessario qualcuno che verifichi come l’azione amministrativa si svolga, con quale indice di qualità dell’attività svolta e dei prodotti erogati (provvedimenti, atti, servizi, che siano), sia mentre l’azione è in corso, sia al termine. Ciò apparirebbe quanto mai necessario affinché gli enti e gli organi che agiscono — tanto se composti da rappresentanti politici, quanto da tecnici (dirigenti e funzionari) — non rendano l’azione amministrativa del tutto autoreferenziale, col rischio di indirizzare malamente la spesa o di non tenerla sotto controllo.

E non è certo fattore ignoto che contributi, bonus, appalti, sovvenzioni, accordi transattivi tributari e del lavoro, progetti gestionali finiscano per essere male indirizzati, risultare privi di utilità o soggetti a spese fuori mercato, eccessive e di fatto dannose. Nel sistema degli enti locali ormai da decenni i controlli, quelli veri, quelli che potrebbero funzionare (quindi svolti da soggetti esterni e preventivi all’efficacia della decisione finale), sono stati eliminati.

La riforma della Corte dei conti, da pochi giorni approvata, finisce per cancellare quel po’ che restava dei controlli “concomitanti” o successivi svolti dalla magistratura contabile nei confronti dell’attività dell’amministrazione centrale. Si dirà che così si elimina o limita la “paura della firma”, sì da permettere agli organi delle PA di adottare le proprie decisioni senza lo spauracchio della responsabilità erariale. Ma, Titolare, guardando meglio le conseguenze della riforma, si finisce per comprendere come essa con la “paura della firma” abbia solo un labile aggancio e, piuttosto, sia una chiara scelta di politica economica.

Di fatto, si mette totalmente in secondo piano quel principio così bene e sinteticamente espresso dall’articolo 97, comma 2, ai sensi del quale va assicurato il “buon andamento” dell’amministrazione, che altro non è se non assicurare servizi efficienti a costi sostenibili ed economicamente competitivi. Esiste il rischio che la gestione corretta devii dal “buon andamento”? Purtroppo sì. E non si tratta di corruzione o altri reati contro la PA, rispetto ai quali la responsabilità di cui si occupa la Corte dei conti non ha nulla a che vedere. Si tratta, invece, di scelte strategiche, programmatiche e gestionali che finiscono per determinare sperpero di denaro o mancati introiti.

L’interesse pubblico pretende che chi maneggia il denaro acquisito al bilancio pubblico tramite le tasse utilizzi le risorse in modo adeguato per i fini pubblici, garantendo a tutti i servizi ed i diritti, senza indirizzare la spesa verso iniziative inutili o vantaggiose solo per pochi, oppure scongiurando spese totalmente fuori mercato o prive persino di validi titoli, come contratti posti a regolarli.

È un “rischio” per le persone che materialmente gestiscono tali risorse il controllo o la soggezione alle azioni di responsabilità? Certo. Come è un rischio per qualsiasi amministratore di società private rispondere del proprio operato. Ma perché si finisce per fare indirettamente politica economica, Titolare? Semplice. Lo Stato, con questa legge, sostanzialmente apre le porte a gestioni non necessariamente rispettose del “buon andamento” e incide radicalmente sul concetto di refusione del danno arrecato all’erario pubblico.

Partiamo da questo secondo aspetto. Qualcuno accetterebbe che disposizioni normative limitino l’ammontare del risarcimento di chi subisca un danno definitivamente accertato da sentenza civile al 30% dell’importo del danno stesso? Domanda retorica: evidentemente nessuno. Invece, lo “Stato” con la riforma pone dei tetti massimi alla responsabilità erariale (non propriamente coincidente col risarcimento del danno: si tratta di una sanzione “afflittiva”, che colpisce l’operato di chi con colpa grave o dolo arreca danno alle finanze pubbliche, con condanne alla refusione dell’ammanco causato al bilancio pubblico) e dispone che, se il danno accertato con sentenza sia pari a 100, comunque il responsabile condannato rifonda solo 30. Anzi, anche meno.

Il tetto che gonfia il danno

Infatti, al crescere dell’ammontare del danno, si avrà un allargamento della perdita secca dell’erario. La riforma non solo prevede che il soggetto individuato come responsabile possa essere condannato al 30% dell’importo del danno accertato, ma pone comunque il tetto massimo di due annualità dello stipendio lordo di tale responsabile. Se, quindi, tali due annualità valgono, si ponga, 90.000 euro, comunque tale sarà il tetto massimo del “risarcimento”, anche se si trattasse di un ammanco di 540.000 euro (il cui 30% è 162.000). Cresce il danno, ma la responsabilità riparatoria resta comunque ferma. Dunque, in linea tendenziale, su un danno di 100 si otterrà una condanna risarcitoria di nemmeno 30. Gli altri 70 circa andranno in fumo.

Una sorta di “liberi tutti”: il “buon andamento”, insomma, viene valutato poco meno di un terzo del valore economico mosso dalle PA. Ma il danno non colpisce lo Stato, che è un’entità astratta, bensì i cittadini, ai quali la spesa indebita o gli introiti mancati sottraggono risorse che si sarebbero dovute destinare a fini ben più virtuosi. Tuttavia, questo è un problema per quella percentuale piuttosto bassa di cittadini che le tasse le pagano: per gli altri, se lo Stato sperpera o non introita il dovuto, in fondo non cambia nulla. Una sorta di “redistribuzione” delle risorse pubbliche, frutto appunto di una politica economica di ben originale conformazione.

È chiaro che tale limitazione alla responsabilità non solo non garantisce nemmeno la piena refusione tendenziale del danno erariale, ma finisce per far perdere alla funzione giurisdizionale e di controllo della Corte dei conti anche qualsiasi effetto deterrente. Infatti, oltre alle limitazioni alla condanna viste prima, formidabili saranno le vere esclusioni di responsabilità appena introdotte.

Già la responsabilità erariale era ristretta, come visto prima, ai soli casi di dolo (comportamento intenzionalmente volto a violare regole e norme per arrecare un danno voluto all’erario) o di colpa grave, cioè connessa ad imperdonabili errori cagionati da incompetenza, imperizia, avventatezza e superficialità nella gestione del denaro pubblico.

La riforma finisce per introdurre un quasi impenetrabile scudo alla responsabilità degli organi composti da politici, introducendo una presunzione di buona fede che ne esclude detta responsabilità, a meno che qualche dirigente o funzionario non formalizzi per iscritto un “contrario avviso” alle loro decisioni. Ma, in tempi di spoil system, chi affronterebbe il rischio di sottrarre ai politici l’elisir di lunga irresponsabilità erariale?

Colpa grave irrintracciabile

Ma non basta: per eventuali avventate conciliazioni di vertenze del lavoro indette da dipendenti pubblici o in sede di giudizio tributario, si cancella addirittura la colpa grave e l’eventuale responsabilità erariale deve fondarsi sul dolo. Inoltre, i casi di colpa grave vengono resi difficilissimi da rilevare: saranno condizionati a valutazioni del tutto estranee all’oggettività di giudizio, come il “grado di chiarezza e precisione delle norme violate” o l’inescusabilità e la gravità dell’inosservanza. In ogni caso, non vi sarà mai colpa grave nel caso in cui il fatto dannoso sia supportato dal riferimento a indirizzi giurisprudenziali prevalenti o a pareri delle autorità competenti. Basterà, quindi, richiamare, anche impropriamente, qualche parere, magari fatto produrre ad arte, per escludere sempre il presupposto stesso dell’azione.

Inoltre, la riforma introduce l’ulteriore ostacolo alla responsabilità dato dal silenzio assenso alle richieste di pareri a fini di controllo. Qualora le sezioni della magistratura contabile competenti ad esprimersi su tali richieste non rispondano entro 30 giorni, si formerà implicitamente un assenso alla soluzione prospettata dalla PA con la richiesta e, soprattutto, tale assenso tacito escluderà la colpa grave.

Facile immaginare non solo la spinta degli organi di governo verso quelli tecnici a sottoscrivere qualsiasi atto, anche all’evidenza dannoso, vista la rilevantissima limitazione del rischio di soggezione a giudizi ed il tetto alle eventuali condanne, ma anche verso la produzione torrenziale di richieste di pareri con prospettazioni della soluzione ovviamente ad usum delphini, per inondare le sezioni ed elevare all’ennesima potenza le probabilità di ottenere il silenzio assenso e la pietra tombale su qualsiasi responsabilità.

Anche questo avrà influenza sulla politica economica: la sommatoria di spese inutili per appalti finalizzati a cattedrali nel deserto o finanziamenti come contributi o bonus o mancate entrate crescerà a dismisura negli anni, sempre a danno di chi, con le tasse, sarà chiamato a tappare i buchi.

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