Le elezioni presidenziali palestinesi (o meglio, le elezioni che dovranno scegliere il presidente dell’autorità nazionale palestinese) rappresentano un evento da salutare con favore. Non tanto per l’esito, largamente scontato a favore di Mahmoud Abbas (nome di battaglia Abu Mazen), quanto perché segnano la ripresa di una qualche pratica democratica “occidentale” (ci si passi la precisazione etnocentrica, in questa era di relativismi vorremmo rimarcare che la democrazia vera è quella occidentale…), dopo le farse plebiscitarie dell’era-Arafat, che tuttavia qualche grillo parlante di casa nostra aveva già definito come suprema espressione di “democrazia”. Certo, Abu Mazen vincerà di larga misura sul proprio più immediato concorrente, Mustafa Barghouti, ma la apparente assenza dell’abituale “carisma” mediorientale (leggasi satrapismo e autocrazia) nel settantenne Abbas, depongono a favore di una “laicizzazione” dell’elezione. Certo, se la leadership palestinese dell’epoca (cioè Arafat) avesse accettato il percorso degli accordi di Oslo prima e di Dayton poi, con la storica disponibilità dell’allora primo ministro israeliano Barak a discutere dello status di Gerusalemme Est, forse ora avremmo uno stato palestinese, e la crescita economica già intravista dopo Oslo avrebbe contribuito a porre le basi per lo sviluppo di una borghesia palestinese laica e illuminata, e ora la società palestinese non sarebbe più stretta tra pratiche paternalistiche e mera sussistenza, quella fornita dall’illuminato precetto coranico della zakat, l’elemosina che compie una vera e propria redistribuzione interclassista della ricchezza, e che è servita agli integralisti per arruolare generazioni di kamikaze. Ma la storia non si fa con i se ed i ma. Dopo la laurea in legge in Siria, Abu Mazen ha studiato a Mosca, all’epoca in cui tutti i “movimenti di liberazione” ed i paesi “non allineati” erano di stretta osservanza filosovietica, dove ha conseguito un dottorato con una bizzarra tesi sui legami tra nazismo e sionismo, solo pochi anni dopo che il Gran Mufti di Gerusalemme, zio di Arafat, compiva frequenti viaggi a Berlino per erudire il Fuhrer sulle più “avanzate” ideologie antisemite. E’ stato un convinto sostenitore del revisionismo sul numero di ebrei uccisi dal nazismo e del negazionismo sull’esistenza dei campi di sterminio, e ha di recente compiuto una scontata autocritica. Durante questa campagna elettorale Abbas ha più volte sostenuto il diritto al ritorno dei profughi palestinesi ovvero, in altri termini, la dissoluzione dello stato di Israele. Il tempo dirà se si è trattato di tatticismi o se l’aberrata condizione palestinese e araba avrà prodotto, attraverso un simulacro di pratica democratica, l’ennesima e politically correct versione di antisionismo.
Pratica democratica
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