I due autori definiscono “occidentalismo” il quadro disumanizzato dell’Occidente tratteggiato dai suoi nemici. Il saggio si propone di analizzare questo nodo di pregiudizi, che non possono essere spiegati esclusivamente come un problema islamico, rintracciandone le radici storiche. L’occidentalismo non può essere ridotto a malattia mediorientale, non più di quanto lo si possa ridurre all’odio antioccidentale dei giapponesi di mezzo secolo fa. Secondo gli autori, che esprimono una posizione molto simile a quella presentata da Paul Berman nel libro “Terrore e liberalismo”, l’occidentalismo, il capitalismo, il marxismo ed altri “ismi” sono nati in Europa prima di essere esportati in altre aree del mondo. L’Occidente è stato la culla dell’illuminismo, del liberalismo, del secolarismo ma anche dei loro velenosi antidoti. Già nell’Ottocento e prima, il problema che si poneva a molte civiltà extraeuropee era quello di modernizzarsi, cioè in essenza produrre armi e tecnologia prevalentemente militare, imitando il modello sociale europeo e nordamericano senza contaminare le radici profonde dei propri modelli culturali. Questa discrasia ha prodotto alienazione e lo sviluppo di movimenti di pensiero e politici fortemente avversi all’Occidente.
La contrapposizione violenta tra città e campagna, con la prima vista come crogiolo di tutte le decadenze e tutti i vizi occidentali, fu il centro di tutte le ideologie occidentaliste, di contestazione violenta ai valori occidentali. Nessuna meraviglia di ciò: l’inurbamento produce da sempre alienazione, sradica le strutture familiari, provoca cosmopolitismo e anomia. Da qui il vagheggiare di non meglio precisate “tradizioni”, classiche, nativistiche e naturalistiche, che spesso esistono solo nella mente dei loro ideatori. Da qui, in un eterno ritorno, l’odio verso l’ebreo, mercantile e sradicato.
Il giovane jihadista che in Afghanistan afferma che gli americani non vinceranno mai, perché “Loro amano la Pepsi Cola, noi amiamo la morte”, appare molto simile ai piloti kamikaze giapponesi che, prima di colpire la flotta nordamericana a Pearl Harbor, si sintonizzavano sulle stazioni radio jazz di Honolulu. Ma la guerra all’Occidente appartiene anche alla storia europea e il culto della morte non è esclusivo di asiatici folli. Si pensi alle migliaia di giovani tedeschi, volontari di associazioni patriottiche, che trovarono la morte sul fronte occidentale, durante la prima guerra mondiale. Tornano alla mente le parole scritte, più di cent’anni prima, durante la guerra contro Napoleone, da Karl Theodor Koerner: “La felicità sta soltanto nella morte sacrificale”. Dalla fine del diciannovesimo secolo generali, uomini di corte e una gran varietà di ufficiali dello stato militarista sostennero che Kultur tedesca significava disciplina marziale, sacrificio di sé, eroismo. Anche nei decenni successivi questa concezione dei propri tratti culturali nazionali non abbandonò la Germania, i cui intellettuali (e non solo loro) affermavano con forza che il proprio paese non fosse “Occidente”, come scrisse Werner Sombart in Mercanti ed Eroi , che rappresenta per molti versi il manifesto di questa corrente di pensiero. In questo saggio si esprime la totale ripulsa per l’Inghilterra, patria di bottegai e mercanti, e per la Francia repubblicana e per i valori del 1789, visti in realtà come valori prettamente mercantili, finalizzati a sopire l’animus pugnandi innato al genere umano. La guerra, secondo Sombart, è una battaglia esistenziale, non già tra nazioni bensì fra culture e visioni del mondo, o weltanschauungen. Il tipico mercante, secondo Sombart, è interessato solo a ciò che la vita può offrirgli in termini di beni materiali e benessere fisico, quello che viene definito Komfortismus. Il mercantilismo ha bisogno, per affermarsi, di pace e tranquillità, dove i conflitti d’interesse vengono risolti per via contrattuale e negoziale, dove non c’è quindi spazio per l’onore e l’eroismo, ma conta solo l’utilitarismo. Questo è lo scenario offerto dalle democrazie liberali, questo il nemico da combattere.
Il culto della morte ha spesso finito con l’essere legato alle tradizioni, talvolta completamente reinventate, come nel caso dei kamikaze giapponesi, e del culto dell’Imperatore nell’inedito ruolo di comandante supremo di soldati e marinai, frutto non già della tradizione bensì dell’adattamento di essa al contesto bellico della seconda guerra mondiale.
Meglio morire gloriosamente per un ideale che vivere nel Komfortismus. Anche il fascismo in Italia faceva leva sulla possibilità, per uomini mediocri, di elevarsi a membri di una supernazione dalle superiori qualtà spirituali e, per i nazisti, di razza, contro la mediocrità celebrata dal liberalismo, e per molti versi descritta ed accettata da Tocqueville.
La mente occidentale, secondo gli occidentalisti, è capace di calcolo, ragionamento astratto, progresso tecnologico, ma è del tutto inidonea a raggiungere vette superiori, a causa delle sue carenze spirituali e dell’indifferenza nei confronti della sofferenza umana. Le radici di un simile approccio risalgono molto indietro nel tempo. Già Plotino (204 -70 d.C.), fondatore del neoplatonismo, stabilì una distinzione tra pensiero “discorsivo”, quello dell’anima, e “non-discorsivo”, quello dell’intelletto. L’idea poi che il pensiero intuitivo sia superiore a quello deliberativo è figlia del Romanticismo. Agli occhi degli occidentalisti la mentalità occidentale è “monca”, buona per raggiungere in modo ottimale un dato traguardo, ma inutile per trovare la via giusta. In tale ottica, l’uomo occidentale è un corpo iperattivo costantemente in cerca dei mezzi adatti per raggiungere i fini sbagliati.
L’anima russa, una sorta di entità mistica antitetica al pensiero occidentale, in questo schema interpretativo, appare essere stata letteralmente inventata nell’Ottocento dagli intellettuali cosiddetti slavofili, che tuttavia mutuarono il proprio pensiero dal romanticismo tedesco. Quest’ultimo è spesso apparso come una condizione esaltata della coscienza nazionale, spesso causata da una qualche forma di umiliazione collettiva, come accadde ai tedeschi nei confronti dell’allora potenza politica, culturale e militare francese, e prima ancora dal confronto con Napoleone, che fu particolarmente traumatico per la Prussia orientale, religiosa, economicamente arretrata e tradizionalista. Quando i popoli non solo vengono umiliati da potenze straniere, ma anche oppressi dai propri governi, si rinchiudono nella pura e semplice “vita interiore”, dove si sentono liberi dalla corruzione del potere e da ogni artificiosità, e dove possono rivendicare la propria superiorità morale e spirituale. Così gli intellettuali slavofili, come Dostoevskij e Solovev, crearono un ritorno alle radici della spiritualità russa: l’occidentalismo russo è, al contempo, prodotto della storia russa e prodotto d’importazione, generalmente dal filone romantico e idealista del romanticismo tedesco. Tracce di questa “purezza” idealistica sono del tutto evidenti nel contrasto tra cattolicesimo romano e ortodossia declinata alla russa, caratterizzata da prassi religiose molto semplici, spesso di puro ritualismo visceralmente avverso alla cultura del dubbio ed agli “intellettualismi” cattolici, la profonda ostilità verso ogni forma di innovazione liturgica e dottrinaria, la sostanziale estraneità ai temi teologici, visti come segno della “debolezza” occidentale verso Dio, e come vero cavallo di Troia del razionalismo deteriore occidentale, che invade anche la sfera del rapporto con dio.
Il romanticismo tedesco non fu solo un movimento artistico e letterario, ma ebbe profonde implicazioni politiche e sociali. Nel suo Naturphilosophie, Schelling descrive l’universo come un organismo vivente e finalizzato, il rovesciamento della concezione newtoniana di universo retto da forze e cause, e non da obiettivi e finalismi. Estendere questi concetti all’organizzazione sociale equivale a sbarazzarsi della nozione liberale di una società frutto di legami individuali e contrattati. Concetti che trovarono terreno fertile presso gli intellettuali russi. Il filosofo Ivan Kireevskij, la Russia era il paradigma dello spirito non occidentale. Il diritto romano, costruito sul diritto assolato di proprietà, appare la radice dell’odiato individualismo. Il nemico da colpire è il positivismo e lo scientismo, di cui i nichilisti erano i rappresentanti. L’infatuazione per la volontà pura fu naturalmente cruciale per nazismo, fascismo e tutte le ideologie che traggono linfa dal Fuhrerprinzip, l’idea del capo assoluto (non estranea alle attuali società islamiche) la cui autorità deriva dalla capacità di decidere il destino della nazione.
L’islam dà un proprio originale contributo alla ormai plurisecolare storia dell’occidentalismo: se neppure il più acceso degli slavofili avrebbe mai definito “barbara” la civiltà occidentale, l’islam odierno rompe anche questo diaframma, con l’accusa di idolatria, peraltro già presente nel giudaismo, con la descrizione del rapporto tra Israele e dio centrata sulla similitudine con il rapporto tra moglie e marito. L’idolatria è connivenza con le potenze dell’epoca, guidate da altri dei: il termine usato per definire l’idolatria, o insipienza religiosa, è stato poi progressivamente accostato al concetto di “barbarie”. Maometto venne inviato da dio per debellare l’idolatria religiosa presso i barbari e scacciare quindi la barbarie. E i barbari non sono esattamente esseri umani, sono entità subumane, da combattere ed annientare, secondo un approccio manicheo. Ecco quindi la novità, assolutamente sconvolgente, che l’estremismo islamico porta all’armamentario ideologico dell’occidentalismo. Per il manicheismo, nato in Persia nel III secolo dopo Cristo, combattuto duramente dalle religioni monoteiste come eresia per la contrapposizione tra regno della luce e regno delle tenebre (ciò che di fatto segnava una “limitazione” della sfera divina) e di cui tuttavia restano tracce, esiste una inconciliabile contrapposizione tra materia, vista come corruttibile, imperfetta, generatrice di pulsioni inferiori, frutto in essenza delle forze del male, e spirito, frutto della elevazione dell’umanità alla luce di dio. Lo stesso sant’Agostino, dapprima seguace del manicheismo e in seguito suo accanito oppositore, conservava però come cristiano platonico un atteggiamento negativo verso la carne. L’Occidente è oggi visto, dall’integralismo islamico, come regno della materia e della corruzione spirituale, e quindi da combattere fino all’estremo. Secondo gli autori, la fioritura dell’integralismo islamico deriverebbe anche dalla violenza subita da popolazioni che esprimevano una sincera spiritualità, ad opera dei regimi autoritari (si cita soprattutto il caso della Persia-Iran, e dello Shah Reza Pahlavi, ma anche la Turchia di Ataturk) che ambivano a promuovere una modernizzazione a tappe forzate dei propri paesi e vedevano, a torto o a ragione, la manifestazione di fede come elemento di ritardo e conflitto con la spinta modernizzatrice, con i soldati che percorrevano le strade delle città costringendo le donne a togliersi il velo ed i religiosi a disfarsi del turbante. Occorre a questo punto sottolineare come l’elaborazione della teoria dell’idolatria e della barbarie occidentalista venne spesso promossa e agevolata da figure di intellettuali islamici che avevano viaggiato e vissuto in Occidente, come Sayyid Qutb, fondatore dell’organizzazione egiziana dei Fratelli Musulmani, che aveva a lungo vissuto negli Stati Uniti, uscendo letteralmente orripilato dall’esperienza.
Tra i bersagli preferiti dell’occidentalismo islamico figura certamente la separazione tra stato e religione, che fu promossa tra l’altro anche dalla Riforma protestante. L’inaccettabile precetto della separatezza tra dio e cesare viene poi integrato dal peccato d’orgoglio e soprattutto dalla promiscuità sessuale dell’Occidente, vista come la vera bestemmia sovvertitrice della morale tradizionale. Da qui il tema del velo islamico, che esprime l’idea manichea della tensione permanente tra carne e spirito. L’uomo è un lupo per le donne. Lasciati a se stessi, sono costretti ad occuparsi di sesso. Soltanto il velo protegge le donne e concede loro una dimensione spirituale. Ma la donna è anche il “gioiello custodito” nella corona dell’uomo e che si accordi onore all’uomo che lo “difende”. La “liberazione sessuale” della donna è vista quindi come perdita dell’onore per l’uomo, e le donne occidentali liberate sono viste come le prostitute del tempio, al servizio del materialismo. Alcuni pensatori radicali islamici erano convinti che le differenze tra uomini e donne fossero state eliminate allo scopo di sfruttare più agevolmente le donne nell’interesse del capitalismo. Si deplorava ad esempio il fatto che pensatori occidentali come Bertrand Russell avessero proposto di “risolvere” la penuria di uomini promuovendo l’idea immorale della maternità di donne nubili, anziché adottare la morale pratica musulmana della poligamia.
Gli autori concludono il saggio riepilogando i rapporti di causa-effetto: la modernizzazione violenta attuata nei paesi che cercavano di restare al passo con lo sviluppo economico e militare dell’Occidente hanno prodotto il demone dell’occidentalismo. Nella versione islamica, il principale sono quanti vengono accusati di “connivenza col nemico” o, per usare un termine ricorrente nella tragica cronaca dei nostri tempi, di “apostasia”, vero cavallo di Troia delle forze del male contro la purezza nativistica della propria fede e spiritualità. Ma secondo gli autori, la storia di questo confronto-scontro non è uno scontro di civiltà, bensì il frutto di contaminazioni culturali incrociate che tuttavia, come evidenziato anche nella suggestiva opera di Paul Berman, “Terrore e liberalismo”, sarebbero pressoché esclusivamente originate in Occidente.
A nostro giudizio, si tratta di un libro che apre un fecondo filone interpretativo dell’attuale conflitto culturale. Non siamo purtroppo del tutto certi che quello che stiamo vivendo non sia uno vero scontro di civiltà, temiamo anzi che proprio per le motivazioni addotte da Buruma e Margalit, la conclusione a cui arrivare sia proprio questa. Forse l’ostilità verso la razionalità e l’individualità occidentali rappresentano una sorta di riflesso condizionato inevitabile alle spinte di alienazione ed anomia che sono provocate dall’evoluzione delle società capitalistiche. Dobbiamo continuare a criticare questi sviluppi del capitalismo e del liberalismo, ma non possiamo per nessun motivo credere che possa esistere una forma alternativa di civiltà occidentale che possa prescindere dall’affermazione dei diritti soggettivi ed inalienabili del genere umano, soprattutto in relazione alla condizione femminile. La razionalità unidimensionale, scissa dalla spiritualità o da un sistema di valori che definiremmo “umanistici”, nei quali ci riconosciamo, e che pongono al centro di tutto l’uomo, è destinata solo a produrre straniamento, alienazione ed anomia, e a porre le basi per avventure intellettuali e politiche molto pericolose.
E’ poi difficile guardare agli Stati Uniti come ad un deserto spirituale: la fioritura di religiosità che attraversa quel paese difficilmente può essere letta semplicisticamente come reazione difensiva alla minaccia proveniente da un’altra fede, o dalla parte più radicale di essa. Purtroppo, non si può dire lo stesso dell’Europa, dove si sta da tempo affermando una “religione del laicismo”, intollerante e prevaricatrice che, sotto le mentite spoglie della tolleranza (o per meglio dire dell’indifferenza) verso ogni diversità culturale, anche quelle più pericolose, come dimostrano le recenti vicende olandesi, appare sempre più come il vero elemento facilitatore di fanatismo e fondamentalismo. Cosa si può dire a discapito di Europa ed Occidente? Ci piace riproporre un brano di Bernard Lewis, citato nella bella postfazione di Adriano Sofri. Proviamo a ricordarci di questi concetti la prossima volta che qualche esponente della nostra civiltà occidentale cercherà di attribuirle le peggiori nequizie nella storia dell’umanità:
“Nella decisione di conquistare, soggiogare e saccheggiare altri popoli, gli europei non facevano altro che conformarsi alla pratica comune a tutta l’umanità. Non è tanto interessante capire perché ci provarono, ma perché ci riuscirono e perché, essendoci riusciti, si pentirono del loro successo come di un peccato. Il successo fu l’unico dell’era moderna: il pentimento lo fu addirittura di tutta la storia. Imperialismo e sessismo sono parole di conio occidentale, non perché l’Occidente abbia inventato quelle piaghe, ma perché le ha riconosciute, ha dato loro un nome e le ha condannate come mali. Se la cultura occidentale dovesse davvero finire, imperialismo, razzismo e sessismo non finirebbero con lei. A morire sarebbero probabilmente la libertà di denunciarli e gli sforzi per mettere loro fine.”
Ian Buruma, Avishai Margalit
Occidentalismo. L’Occidente agli occhi dei suoi nemici
Einaudi, 2004