Scoperte e riscoperte

Scrive David Frum, in un articolo per il giornale canadese National Post:

Sembra che la ragione per cui l’auto di Calipari sia stata fatta oggetto di colpi d’arma da fuoco sia stata il fatto che le autorità italiane non avevano informato quelle statunitensi della missione di Calipari. E la ragione di questa strana omissione è stata che la missione di Calipari implicava il pagamento di un riscatto per la giornalista rapita.

Gli Italiani sanno che le autorità statunitensi si oppongono fieramente al pagamento di riscatti, e così pensavano che la cosa migliore da fare fosse tenere le cose tranquille fin quando Sgrena e Calipari si fossero messi in salvo fuori dall’Iraq.

Queste azioni italiane hanno messo in pericolo le vite di Sgrena e Calipari. Esse hanno anche messo in pericolo le vite di migliaia di altri civili occidentali in Iraq. Pagare riscatti incoraggia nuovi rapimenti- e l’Italia sta prendendo la brutta abitudine di consentire il pagamento di riscatti. Quasi fosse colpevolmente consapevole di quanto sbagliata sia questa pratica, il Primo Ministro italiano, Silvio Berlusconi, ha egli stesso fornito i fondi, utilizzando il suo immenso patrimonio, per liberare le due cooperanti rapite nel 2004. Questa volta, i soldi sembrano essere venuti da fondi pubblici.

Le motivazioni dell’Italia sono comprensibili: la guerra non è popolare in Italia, che ha circa 3000 soldati in quel paese. E un prolungato dramma degli ostaggi indebolisce ancora di più il consenso alla guerra. Il governo Berlusconi è naturalmente tentato di fare tutto ciò che è in suo potere per portare il dramma alla conclusione più rapida e positiva possibile.

Ma comprendere non vuol dire scusare. Il tentativo del governo Berlusconi di puntellare il supporto per la guerra pagando furtivamente per il ritorno di Sgrena, ha portato alla morte priva di senso di un uomo audace ed ammirato, e ha creato un efficace palcoscenico per le posizioni estremiste di una giornalista anti-americana.

Dal momento della liberazione, Sgrena ha accusato gli Stati Uniti di aver deliberatamente preso di mira il suo veicolo. ‘Tutti sanno che gli americani non vogliono che gli ostaggi siano liberati per mezzo di negoziati, non vedo perché dovrei escludere di essere stata io il loro bersaglio’, ha affermato in modo poco plausibile in una intervista televisiva domenica scorsa.

Prima del suo rapimento, in articoli scritti per Il manifesto e per il tedesco Die Zeit, Sgrena aveva reso chiara la propria opposizione alla missione della coalizione in Iraq. Ma, durante la prigionia, Sgrena sembra essere avanzata ad un’esplicita solidarietà con gli insorti e appoggio alla loro causa.

In articoli ed interviste dalla fine del rapimento, Sgrena ha fatto tutto il possibile per umanizzare i rapitori, descrivendone uno come tifoso di una squadra italiana di calcio (la Roma, ndr), ed elogiando l’allegria di un altro, non rivelando di essi nulla che possa in qualsiasi modo danneggiare la loro immagine presso l’opinione pubblica italiana, ripetendo gli slogan sulla “fine dell’occupazione”, senza riconoscere in alcun modo che “terminare l’occupazione” è un eufemismo per il ripristino contro la volontà del popolo irachenodi una tirannia omicida.

Sono questi gli stessi insorti che hanno fatto esplodere bombe durante cerimonie religiose sciite, uccidendone a centinaia? Che hanno ucciso bambini mentre stavano ricevendo caramelle dai soldati americani? Che attaccano ospedali, impianti di potabilizzazione dell’acqua, centrali elettriche? Che decapitano i propri prigionieri?

Queste domande a Sgrena non interessano. Né sembra aver notato che, durante la sua prigionia, milioni di iracheni hanno votato liberamente per la prima volta nella storia della loro nazione. E che quegli elettori hanno massicciamente ripudiato il terrore e la violenza dei suoi ‘allegri’ rapitori.

Il vecchio Partito Comunista italiano può essere morto. Ma come ci ricorda Giuliana Sgrena, il comunismo ha lasciato la propria impronta nella cultura della sinistra italiana. La prontezza nel supportare qualsiasi gruppo anti-americano, non importa quanto abietto; la credulità a supporto delle brutalità del Terzo Mondo; la disponibilità a piegare la verità al servizio della ‘rivoluzione’. La morte di Nicola Calipari ha creato un’opportunità per portare tutto ciò alla ribalta dei media e della politica italiani. Non un buon modo per onorare il sacrificio di un uomo valoroso.

Tralasciando la leggenda metropolitana di un Berlusconi che paga di tasca propria un riscatto, questo articolo esprime in modo del tutto condivisibile lo sconcerto che gli americani (anche e soprattutto quelli dotati di una cultura politica meno raffinata di quella di Frum) stanno provando di fronte alla girandola quotidiana di prese di posizione di Giuliana Sgrena, tutte caratterizzate da una pesantissima distorsione ideologica e fattuale (ricordate i 400 colpi d’arma da fuoco?) degli avvenimenti. L’Italia ha il diritto e il dovere di voler conoscere quanto è successo quel disgraziato 4 marzo, ma sappiamo già che l’eventuale addebito della responsabilità a dei comuni e “banali” soldati non basterà alla sinistra, che inizierà ad elaborare nuove teorie cospirative, che condurranno direttamente all’immancabile complotto, partito da un ordine di servizio firmato da Rumsfeld con l’avallo di Bush e la regia occulta di qualche demone neocon di complemento.

Questa vicenda rappresenta un momento di presa di coscienza, da parte dell’opinione pubblica americana, di quali e quante farneticazioni possano essere dette e scritte sul conto dei propri soldati e di questa guerra. L’americano medio (quello descritto dalla sinistra italiana ed europea come un consumatore compulsivo ed analfabeta che non sa leggere una carta geografica) potrà conoscere le preziose elaborazioni intellettuali di una Rossana Rossanda o di una rediviva Luciana Castellina, il livore ideologico di un Diliberto, la prosa onirica di un Bertinotti, le crudeli e vagamente fascisteggianti vignette di un Vauro. E l’americano medio potrà anche andare a rileggersi questo blog olandese, dove si cita l’opinione di un giornalista di quel paese, che ha viaggiato verso l’Iraq con Giuliana Sgrena ed altre due sue colleghe, di eguale orientamento ideologico, e capire che il buon giornalista non è esattamente quello che va in giro per il mondo (magari pure senza assicurazione fornita dal proprio giornale) a berciare “siamo compagni, come voi odiamo gli americani, non ci farete nulla, lottiamo insieme contro l’imperialismo”, e magari un bel “viva il compagno Saddam”, perché in fondo il Baath era un movimento d’ispirazione socialista e nazionalista o, per amore di sintesi, nazionalsocialista, e si sente una certa aria di famiglia. Si, oggi sappiamo che un altro mondo è possibile. Ridateci la Guerra Fredda.

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