Il pontificato di Karol Wojtyla sarà ricordato in molti modi: come quello della globalizzazione mediatica, del dialogo interreligioso e della solenne offerta di scuse per gli errori di Santa Romana Chiesa, del contributo alla caduta del Muro di Berlino ma anche della critica serrata e stringente alle anomie e alienazioni del capitalismo trionfante. O anche come il pontificato della “restaurazione”, intesa come riforma o controriforma ed allontanamento dalle spinte più “progressiste” del Concilio Vaticano II. Un pontificato di modernità tecnologica e post-conciliare, ma al tempo stesso un pontificato di critica assoluta di quell’Illuminismo che sembrava destinato, nella sua declinazione contemporanea, a mettere in soffitta la dimensione della fede. Ma sarà ricordato anche come il pontificato che ha trasmesso un messaggio profondo e pervasivo con il quale tutti dobbiamo confrontarci: il messaggio di un neo-umanesimo cristiano, quel porre al centro di tutto l’uomo, vero valore supremo dell’azione nella Storia del dio cristiano. Contro ogni alienazione, contro ogni culto materialista, sia esso il materialismo storico di matrice marxista che quello non meno distruttivo della nostra società occidentale, che pure ha meriti storici di affermazione della dignità umana, ma che sempre più spesso rischia di tradirli. Ma è stato soprattutto un pontificato che ha messo in un angolo il tradizionale manicheismo dell’anticlericalismo manierista, anch’esso figlio della Guerra Fredda, per costringere tutti a misurarsi con la centralità dell’uomo nella storia. Che ha costretto molti laici a smettere di essere laicisti, ed a misurarsi con quest’uomo, tenace e tetragono nelle proprie convinzioni, così lontano dalla sofferta dubbiosità di Paolo VI. Come scrisse Albert Camus, “la santità è un complesso di abitudini”. Nessuno meglio di Karol Wojtyla ha incarnato questo concetto. Non tutti i cattolici hanno seguito alla lettera l’insegnamento papale, la Chiesa non è un monolite, mai lo è stata e mai lo sarà, ma in nessuna circostanza è stato possibile liquidare con un’alzata di spalle il pensiero di quest’uomo.
Da laici quali siamo, e per non contribuire al “coccodrillo” planetario che in queste ore rischia di travolgerci, non possiamo non rimarcare l’atteggiamento dell’uomo Karol Wojtyla davanti alla morte: qualcosa che i non credenti difficilmente posseggono, e che ci induce a guardare con un pizzico di mondana invidia a chi ha una fede così autentica e forte. Nei secoli, in molti hanno provato a sostituire la fede con una “religione civile”, laica ed immanente. Foscolo scriveva, nei Sepolcri, “Sol chi non lascia eredità d’affetti poca gioia ha dell’urna”, cercando di trovare, nel ricordo che ciascuno di noi lascia in chi gli sopravvive, sollievo all’angoscia creata dalla prospettiva della morte. Un umanesimo struggente e profondamente incardinato nell’immanente, ma sentiamo che la fede è un’altra cosa…
Nei prossimi giorni torneremo a dibattere di cose assai contingenti e terrene, prima fra tutte la scelta del successore di Giovanni Paolo II e delle conseguenze che tale scelta avrà sugli equilibri politici, interni ed internazionali. Ma oggi è il giorno del silenzio e della riflessione. In fondo, una preghiera anche questa, anche se laica.
Da un paese lontano
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