La scorsa settimana la Cina ha ufficializzato il proprio ingresso nel mondo della simbologia capitalista, e lo ha fatto con un atto molto concreto: l’offerta da parte di China National Offshore Oil Corporation (controllata dallo stato cinese) di acquistare per contanti, al prezzo di 18.5 miliardi di dollari la società petrolifera statunitense Unocal. I dirigenti cinesi hanno sottolineato che la mossa non ha carattere ostile, anche se in effetti giunge circa due mesi dopo che il consiglio di amministrazione di Unocal ha accettato l’offerta di acquisizione proveniente da Chevron, pari a 16.4 miliardi di dollari. Parlare di Cina dalle parti di Capitol Hill, di questi tempi, equivale a mostrare un drappo rosso fuoco ad un toro sovreccitato, soprattutto alla luce del contenzioso sul tessile che gran parte della classe politica americana sta tentando di condurre all’esito di sanzioni contro l’import cinese. L’obiezione politica americana contro l’acquisizione di Unocal ha delle basi razionali: la Cina, con la propria smodata sete di petrolio, sta progressivamente incettando riserve petrolifere in giro per il mondo, mentre gli Stati Uniti negli ultimi anni hanno visto crescere la propria dipendenza energetica dall’estero. Non a caso i cinesi si sono affrettati a ribadire che la valenza strategica di Unocal deriva dal fatto che la società (di dimensioni medio-piccole nel panorama petrolifero statunitense) possiede giacimenti di gas naturale in aree contigue alla Cina, quale l’Indonesia, e che la produzione petrolifera realizzata sul suolo statunitense continuerebbe ad essere venduta in quel mercato. Le giustificazioni addotte e le garanzie offerte (auspicabilmente da tradurre in qualche vincolo legislativo avente valore cogente) non devono tuttavia far passare in secondo piano le criticità geostrategiche della vicenda. Prescindendo dal fatto che CNOOC è di proprietà statale, in quanto sostenitori del liberoscambismo non possiamo non rallegrarci del fatto che i cinesi sembrano essere disposti ad aprire il proprio mercato ad investimenti diretti esteri, e non solo ad utilizzare esclusivamente fuori dai propri patri confini le regole del capitalismo. Lo scorso anno, Anheuser Busch ha acquisito il produttore cinese di birra Harbin, al termine di una battaglia basata sulla logica molto yankee del takeover, e pochi giorni fa Bank of America ha siglato un accordo in base al quale entrerà, nella misura del 9 per cento, nel capitale di China Construction Bank, anch’essa posseduta dallo stato.
Ma è innegabile che il tema dell’autosufficienza energetica dovrebbe essere trattato in modo differente da quello della pura logica di mercato. Gli Stati Uniti importano circa il 60 per cento del proprio fabbisogno petrolifero, una percentuale in costante aumento negli ultimi anni. Il decollo produttivo cinese, indiano, ed in generale asiatico, sta aumentando le rigidità del sistema degli approvvigionamenti energetici, come testimoniato dall’andamento del prezzo del greggio, che appare condizionato, oltre che dalla normale legge della domanda e dell’offerta, anche da un risk premium, geopolitico ed operativo, in costante ampliamento. La presidenza Bush non ha finora brillato per incentivi alla ricerca di fonti energetiche alternative, malgrado alcune condivisibili enunciazioni di principio e qualche stanziamento di tipo simbolico, come quelli per la ricerca sull’idrogeno. Il problema non è la minaccia all’autosufficienza energetica americana, che non deve comunque essere minimizzato, ma gli effetti collaterali dell’andamento del prezzo del greggio. Gli Usa importano dalle zone politicamente più volatili ed instabili del pianeta, e l’aumento del prezzo del greggio sta risolvendosi in una formidabile fonte di finanziamento dei regimi più estremistici e destabilizzanti del pianeta, in alcuni casi provocando addirittura una drammatica involuzione rispetto agli scenari geopolitici che Washington persegue da tempo. Il caso dell’Iran è paradigmatico: l’elezione a presidente di Ahmadinejad va letta anche sulla base del rapporto che si instaura tra sudditi e dittature petrolifere, pur senza minimizzare l’inquinamento della libera scelta popolare, compiuto dal regime soprattutto prima delle consultazioni, in fase di ammissione delle candidature. Come scrive oggi Guido Rampoldi su Repubblica,
“Grazie ai suoi imponenti flussi valutari il regime costruisce un generoso Stato assistenziale e in cambio della passività politica offre servizi, posto fisso, esenzioni fiscali. In Iran questo patto è stato messo in crisi dal boom demografico del passato, che oggi produce mezzo milione di giovani disoccupati all’anno. La fazione più concreta della teocrazia iraniana, quella rappresentata da Rafsanjani, ha proposto all’elettorato, un nuovo accordo: più capitalismo, cioè meno tutele. Uno dei passi ventilati era la privatizzazione di alcune Fondazioni, veri giganti dell’economia iraniana e centri d’un assistenzialismo clientelare in gran parte legato al blocco militare e paramilitare. Quest’ultimo s’è difeso mettendo in campo il suo candidato, Ahmadinejad. E l’elettorato povero ha bocciato il capitalista, per difendere piccoli benefici o magari in odio a quella nomenklatura furba che già si preparava al business. In Rafsanjani ha percepito il campione dei rivoluzionari in affari. “
Questo è il problema che gli Stati Uniti dovranno affrontare nel prossimo futuro. Non ha senso contrastare le fonti di finanziamento del terrorismo se si diviene, più o meno consapevolmente finanziatori, attraverso la rendita petrolifera, dei regimi con esso collusi. La variabile asiatica sta solo esacerbando il problema: l’utilizzo in quell’area di tecnologie produttive ancora relativamente energy-intensive (a confronto ad esempio di quelle giapponesi) sta sottoponendo ad un severissimo stress il mercato petrolifero mondiale. Chi vede nel mercato la forza idonea a riequilibrare ogni e qualsiasi squilibrio, inclusi quelli geopolitici, non riesce a spiegarsi perché, con il greggio a 60 dollari, nuove fonti energetiche non riescano a trovare modo di affermarsi, sia pure con la necessaria gradualità. La risposta potrebbe essere rinvenuta nell’azione delle lobby, almeno secondo un editoriale, non firmato e per ciò stesso “solenne”, del Washington Post:
More specifically, any politicians who care about the future economic, environmental and political stability of this country should right now be seeking to end the de facto subsidies for the oil and gas industries, aggressively promote research into new forms of ethanol and biofuel, limit automobile fuel consumption, and tax or cap the carbon emissions created by the burning of fossil fuels, which most scientists believe to be an important cause of global warming. With taxes and market incentives, it would be possible today to encourage the rapid deployment of existing technology and dramatically reduce this country’s dependence on petroleum.
Neither the White House nor congressional leaders nor the Republican Party as a whole has yet accepted this case, perhaps because none has managed to overcome the pressure of the automobile, utility, oil, gas and other lobbies that spend enormous amounts of money trying to protect the status quo.
E non si creda che questa sia la riproposizione di qualche frusta lamentazione in stile Jimmy Carter 1976: introdurre ed imporre nuovi standard tecnologici e di mercato rappresenta una formidabile leva per mantenere inalterata la propria leadership planetaria, come ben sapeva Bill Clinton quando sottoscrisse l’adesione americana al Trattato di Kyoto, pur sapendo perfettamente che il Congresso non lo avrebbe mai ratificato, ma al contempo tentò di promuovere l’idea di creare accordi multinazionali di ricerca per tecnologie eco-compatibili, perfettamente consapevole che la leadership di essi sarebbe stata americana, con imponenti ricadute in termini di royalties, monetarie e politiche, corrisposte da tutto il mondo.
Altra area di potenziale vulnerabilità degli Stati Uniti è quella costituita dall’ampiezza del deficit commerciale. Noi non apparteniamo alle schiere di quanti vedono il trade deficit americano come una costante minaccia per la sopravvivenza del sistema politico ed economico di quel paese. Finché gli Usa potranno contare sul dollaro come valuta di riserva internazionale, non prevediamo esiti catastrofici. Ma le sovrastrutture finanziarie e strategico-militari a sostegno del dollaro non sono un dato acquisito una volta per tutte. I profeti di sventura sono soliti affermare che se la Cina smettesse di investire il proprio surplus commerciale in Treasury bonds (ed aziende…) statunitensi, si arriverebbe rapidamente all’implosione dell’impero americano. Forse è così, ma vale anche la considerazione opposta: se gli Stati Uniti smettessero oggi di assorbire quote crescenti di manufatti cinesi, quel paese regredirebbe rapidamente allo stadio rurale da cui proviene. Ma la minaccia, come il diavolo, si nasconde nei particolari. Il governatore delle People’s Bank of China ha dichiarato, giorni addietro, che obiettivo prioritario delle autorità di Pechino è il tendenziale azzeramento del surplus commerciale cinese, attraverso maggiori consumi domestici ed importazioni ad essi legate. Se, ad una prima lettura, questa mossa serve a tranquillizzare i politici americani più protezionisti, ad un esame più approfondito essa ha in sé i germi della crisi strutturale americana prossima ventura. Se la Cina riuscirà nell’intento, una volta superata indenne la fase del takeoff industriale e produttivo senza pagare dazio alle leggi economiche del commercio internazionale, essa potrà creare ed egemonizzare un’area economica e geopolitica asiatica, un sistema chiuso ed auto-sostenibile tale da causare quella crisi da eccesso di consumo americano, che ad oggi appare ancora pura speculazione accademica, con somma soddisfazione dei profeti di sventura alla Paul Krugman, che vedranno alfine confermate le proprie tesi.
Ecco perché l’obiettivo del mantenimento della leadership americana, e la rimozione degli ostacoli all’affermazione della democrazia nel mondo, non possono prescindere da una qualche correzione all’attuale visione strategica dell’Amministrazione Bush. Soft power, primato tecnologico e liberoscambismo possono essere molto più efficaci ed efficienti dell’esclusivo impiego della forza militare, che pure resta dotazione fondamentale nel set di strumenti di politica estera.