Come ridefinire il liberalismo occidentale davanti ad attacchi come quelli di New York, Madrid e Londra? Finora ci è stato detto che il liberalismo è un contenitore di tolleranza e diversità, non un fine ma un mezzo, qualcosa di universale ed universalizzante. Una definizione suggestiva. Sfortunatamente, anche il tipo di definizione che rischia di perderlo e di dannarci. Un liberalismo ed un laicismo divenuti tragicamente veicoli e conduttori (anche in senso fisico) di intolleranza ed odio alieni. L’involuzione di un modello: dalla tolleranza all’autosegregazione ed all’indifferenza; dall’accoglienza ai rifugiati all’omicidio di Theo Van Gogh. Dalla sacralità della tutela assoluta della privacy alla copertura di operazioni terroristiche coordinate e su vasta scala.
Che fare? Quale liberalismo in uno stato di guerra? Siamo d’accordo con la proposta di creare un Patriot Act europeo, pur consapevoli dei rischi di riproporre tutti i limiti di coordinamento e burocratizzazione caratteristici del processo decisionale su scala continentale, che tanto ha contribuito alla degenerazione dell’ideale europeista. Siamo anche consapevoli che, ad oggi, esiste una minoranza non marginale, quella rappresentata da un preciso orientamento ideologico, la subcultura progressista, che continua a vedere nelle stragi di uomini, donne e bambini innocenti non tanto l’attacco ai nostri ideali ed ai nostri valori, quanto la giusta “punizione” per la presunta e pretesa protervia occidentale, e che rappresenta il miglior cavallo di Troia per il terrorismo islamista nel mondo. I nostri antichi “cattivi maestri” sono diventati gli utili idioti dell’odio religioso, e continuano a contaminare le nostre società con il loro culto nichilista della punizione del malvagio Occidente. Leggasi al proposito il manifesto di oggi, segnatamente l’articolo intitolato “Le bombe di Blair”, titolo di per sé sufficientemente autoesplicativo di questa psicopatologia politica e culturale. Prendiamo atto con piacevole sorpresa della risposta di Fausto Bertinotti:
”Guai a dire che Blair se l’è cercata. Qualunque sia la responsabilità di uno Stato, qualunque sia la scelta di un governo, niente giustifica il partito del terrorismo che distrugge vite umane, che e’ inumano, come la guerra.”
”Io non vedo questo collegamento. Per la guerra e per il terrorismo ci vogliono due volontà politiche indipendenti. (…) Il terrorismo non nasce dalla povertà del mondo, ma da una scelta che si fa partito, con una sua strategia, i suoi mezzi, la sua economia. Le condizioni economiche – sottolinea – sono una concausa della crescita terroristica”.
Si tratta di un’interessante evoluzione della vecchia vague culturale della sinistra, che vuole il terrorismo figlio della povertà e della disperazione delle masse urbane sfruttate: teoria che evapora, quando sottoposta al duro confronto con una realtà fatta di terroristi perfettamente integrati nelle nostre società liberali, che essi utilizzano come enormi cavalli di Troia. Il francese Olivier Roy, direttore della Scuola di Alti Studi in Scienze Sociali di Parigi, ed autore del libro ”La laicità di fronte all’ islam”, ha le idee molto chiare in proposito:
Il terrorismo non ha ”radici” e non è la ”conseguenza obbligatoria” del conflitto israelo-palestinese né della guerra in Iraq: ”le motivazioni sono sempre più complicate e personali”. ”L’ Europa è diventata un luogo di radicalizzazione islamica, che non è la semplice conseguenza dell’ importazione dei conflitti del Medio Oriente. Il caso tipico è quello dell’ assassino di Theo Van Gogh in Olanda. Non ha fatto alcuna rivendicazione sulla Palestina o l’Iraq. Non ha parlato che dell’Islam”.
L’esperto osserva che ”il modus operandi” degli attentatori di Londra è lo stesso di quello di Madrid.
”Ci sono tutte le probabilità che gli autori appartengano alla stessa categoria di quella dei membri di tutte le reti smantellate in questi ultimi tempi in Europa: gli sradicati. Sono dei nomadi, dei prodotti della globalizzazione, degli individui che si sono radicati politicamente e religiosamente in un altro paese diverso da quello di cui sono originari, soprattutto in Europa”.
”Non sono attratti dalle lotte di liberazione nazionale e dall’ instaurazione di uno Stato islamico. Sono degli internazionalisti, come Osama Bin Laden.
Questi non ha iniziato la sua carriera tentando di rovesciare la monarchia saudita, ma partendo in Afghanistan, primo campo di battaglia della guerra santa. La dimostrazione è che Al Qaeda è pochissimo intervenuta direttamente sul terreno palestinese e che nessun palestinese è stato mai attivo in seno ad Al Qaeda”.
Che fare? Andare alla confrontation (ideologica, di intelligence e, ove serva, militare), come già fatto contro il comunismo. Usare le armi della libertà e dello sviluppo economico, che porta con sé, fatalmente ed inevitabilmente, la libertà d’espressione (anche i cinesi lo sperimenteranno, è solo questione di tempo). Ed al contempo occorre ridefinire il nostro liberalismo, riducendone quella che definiremmo “tolleranza alla varianza culturale”: non più illimitata indifferenza apertura ad ogni cultura, anche quelle manifestamente ad esso ostili. Non si tratta di pulsione liberticida, come invece pretenderebbe qualche saccente totalitarista di casa nostra, aduso da sempre ad abbeverarsi alla fonte della libertà occidentale mentre gioca a fare il rivoluzionario organico a quel sistema che egli tanto ama detestare. La sfera d’inclusione del “liberalismo in tempo di guerra” è sufficientemente ampia da permettere alla libertà di coscienza ed espressione di sopravvivere.
Non prevarranno.
Grazie a Wellington per l’immagine.
UPDATE: Chi sono gli inglesi? Leggetelo in questo post di David Frum.