Un Cancelliere sotto scacco

Se Gordon Brown è l’indiscusso erede alla successione della premiership di Tony Blair, gran parte del merito va alla sua provata abilità come Cancelliere dello Scacchiere. Il Labour ha impostato gran parte dell’ultima campagna elettorale enfatizzando (non senza ragione) i positivi risultati economici conseguiti in quasi un decennio. Tony Blair ha elogiato il suo collega, definendolo il miglior Cancelliere degli ultimi 100 anni. E Brown, a cui non difetta la considerazione di sé, ha rafforzato il concetto, sostenendo di aver presieduto al più lungo periodo di sostenuta crescita economica degli ultimi 300 anni. Ma tali rivendicazioni appaiono oggi ostaggio della sorte. E mentre attende, con crescente impazienza, di subentrare a Blair e proclama, un pò cripticamente, di voler “rivitalizzare” il New Labour, Brown è costretto ad assistere al quasi quotidiano stillicidio di cattive notizie dal fronte dell’economia. Al momento della presentazione del budget per il 2005, a marzo, Brown aveva ipotizzzato una crescita in linea con quella del 2004, che era stata superiore al 3 per cento. Ad oggi, le principali organizzazioni economiche internazionali e la stessa Bank of England stimano una crescita per l’anno in corso che non dovrebbe superare l’1.5-2 per cento. Tanto magniloquente nell’attribuirsi i meriti della crescita economica dell’ultimo decennio (non senza fondamento) quanto lesto ad individuare un succedaneo del destino cinico e baro, Brown ha subito puntato il dito sull’aumento del prezzo del petrolio quale responsabile del forte rallentamento della congiuntura britannica. Ma la spiegazione non è convincente. Il raddoppio del prezzo del greggio, verificatosi dall’inizio del 2004 ad oggi, non è nemmeno comparabile con il rincaro del 400 per cento fatto segnare dal petrolio negli ultimi tre mesi del 1973, durante il primo shock petrolifero. A ciò si deve aggiungere che il prezzo reale (cioè deflazionato) del greggio, espresso in dollari, che per gli americani oggi è più caro che allora, resta tuttora, per l’economia britannica, lontano dai massimi storici. Né si deve trascurare il fatto che, nel 1973, il Regno Unito non era autosufficiente nella produzione petrolifera, come invece è divenuto dopo la scoperta dei giacimenti nel Mare del Nord. Last but not least, oggi l’economia britannica non solo usa meno petrolio per unità di prodotto interno lordo, per ovvio effetto dell’innovazione tecnologica, ma è pure diventata, un trentennio dopo, l’economia europea meno dipendente dal greggio, anche e soprattutto per effetto della forte terziarizzazione conseguente alla stagione di Margaret Thatcher. Secondo il National Institute of Economic and Social Research il rialzo del prezzo del greggio, oggi, riduce la crescita economica britannica di circa la metà rispetto al taglio subito dall’Area Euro, e di un terzo rispetto agli Stati Uniti. Ed il petrolio sarebbe responsabile di solo un quarto del rallentamento della crescita britannica, dal 3.2 per cento del 2004 al 2 per cento previsto oggi per fine anno.

Purtroppo per Brown (e per le sue aspirazioni di premiership) le radici del rallentamento, che non è ancora divenuto recessione, sono tutte domestiche: la forte crescita del mercato immobiliare ha spinto i consumi, e l’effetto-ricchezza da essa indotto ha portato i britannici a tagliare drasticamente il risparmio e ad accrescere il proprio debito, che si trova oggi al record del 150 per cento del reddito disponibile. Oggi quel circolo virtuoso, divenuto vizioso, si è interrotto: i prezzi degli immobili crescono al passo di circa il 2 per cento annuale, l’effetto-ricchezza è venuto meno e, sintomaticamente, il tasso di risparmio è passato dal 4.1 per cento del 2004 al 5 per cento odierno. Le famiglie sono quindi diventate molto caute, e l’impatto sui consumi è stato pressoché immediato: dopo una crescita dello 0.9 per cento medio trimestrale dall’inizio dell’era Blair-Brown, nel 1997, nel primo trimestre di quest’anno la crescita dei consumi è stata di solo lo 0.1 per cento, e nel secondo trimestre si è registrato un “rimbalzino” dello 0.4 per cento. Il rallentamento congiunturale ha iniziato a colpire la manifattura, anche per effetto dell’implosione di Rover, e sta estendendosi al settore del commercio al dettaglio, con espulsione di forza-lavor che sta andando ad ingrossare le fila dei percettori di sussidi di disoccupazione. Né la situazione sembra destinata a migliorare a breve. I principali motori della crescita britannica sono stati finora consumi e spesa pubblica. Dei consumi si è detto, la spesa pubblica è stata messa a dieta da Brown, con l’uscita prevista di 80.000 pubblici dipendenti. A ciò si aggiunga che il rallentamento della crescita è destinato a sfondare le previsioni di bilancio, che peraltro Brown sbaglia sistematicamente da quattro anni, in termini di saldo netto da finanziare. Ecco quindi stagliarsi all’orizzonte l’ombra minacciosa del più classico dei dilemmi di politica economica: coprire il buco di bilancio causato dal calo del gettito fiscale aumentando le tasse, e deprimendo ulteriormente l’economia, o tagliando le spese, scontrandosi con i dettami keynesiani classici del deficit spending in funzione anticiclica?

Si approssima il momento della verità, per il tandem di Downing Street, quello in cui tornerà a palesarsi la grande verità dei nostri tempi globalizzati: è l’economia a guidare e necessitare la politica, non il contrario. Il case-study britannico, che pure abbiamo sempre seguito e studiato con vivo interesse, insegna soprattutto una cosa: per poter fare politica occorre disporre delle risorse necessarie. La crescita economica è la conditio sine qua non per poter elaborare teorie politiche quali quella di Blair (o di Clinton, per restare al versante liberal dell’innovazione politica degli anni Novanta). Le stagnazioni ed il declino economico non hanno mai prodotto grandi statisti, tutt’al più qualche Romano Prodi di complemento.

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