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La richiesta di amministrazione controllata (negli Stati Uniti la procedura si chiama Chapter 11) da parte di Delphi, il fornitore di componentistica nato nel 1999 dallo spin-off di General Motors, ha avviato un dibattito tra economisti e politici su squilibri e rischi del sistema-paese Stati Uniti. Secondo i pessimisti, il 2005 segna l’inizio dell’era dell’allontanamento dei flussi finanziari internazionali dalle attività denominate in dollari. Nell’anno in cui la Cina ha iniziato la tanto attesa (e temuta) Lunga Marcia verso la rivalutazione della propria valuta, sarebbe stato razionale attendersi che gli investitori internazionali si tenessero alla larga dalle attività espresse in dollari. Il riscontro è contraddittorio: mentre il dollaro ha retto molto bene, giungendo addirittura ad apprezzarsi, non altrettanto si può dire per azioni ed obbligazioni statunitensi. Alla data di venerdi 7 ottobre, l’indice S&P 500 è in ribasso da inizio anno dell’1.3 per cento, contro un guadagno dell’indice MS All-Country World ex-Us (espresso in dollari) del 9.5 per cento. Le performances delle borse europee, giapponese e della maggior parte dei paesi emergenti sono state impressionanti mentre le azioni statunitensi, malgrado il florilegio di sorprese positive sugli utili aziendali, sono state martellate da una spietata compressione dei multipli. Allo stesso modo, da inizio anno il guadagno dell’1.7 per cento dei Treasuries americani si confronta con il guadagno di circa il 9 per cento di Bund tedeschi ed obbligazioni sovrane dei paesi emergenti. Solo i titoli governativi giapponesi hanno fatto peggio dei Treasuries, il che è nel complesso giustificato dalle prospettive di risveglio dell’economia nipponica dopo alcuni lustri di deflazione, peraltro non ancora ufficialmente terminata. Ci si domanda se questo debole andamento delle attività finanziarie espresse in dollari sia solo un’anomalia o non piuttosto l’inizio di un trend pluriennale. L’imponente deficit statunitense delle partite correnti, al 6.4 per cento del prodotto interno lordo a metà 2005, sembra destinato a peggiorare ulteriormente nel 2006, per l’effetto congiunto di elevati costi dell’energia, che peseranno sulle famiglie, costringendole a ricorrere al debito o ad intaccare il proprio stock di ricchezza per mantenere il livello di consumi, e delle pressioni sul bilancio federale connesse alla ricostruzione post-Katrina. Interessante osservare che, negli Stati Uniti, le azioni di società operanti nel settore dei consumi capitalizzano ben il 71 per cento del prodotto interno lordo, contro il 58 per cento per l’Area Euro, il 55 per cento del Giappone ed il 42 per cento della Cina.

Il leit-motiv è sempre quello: ribilanciamento.
Secondo alcuni analisti, e parafrasando lo slogan di uno sfortunato e sconfitto candidato alla Casa Bianca, rebalancing is on the way, grazie alle pur timide riforme che in Giappone come in Europa ed in Asia stanno progressivamente liberalizzando le economie del pianeta che si trovano in perenne eccesso di risparmio. Se questo risparmio verrà progressivamente meno gli Stati Uniti, che oggi soffrono il peggiore shortfall di risparmio domestico della propria storia (dal 2002 ad oggi il tasso medio di risparmio nazionale è stato di solo l’1.5 per cento del prodotto interno lordo), avranno difficoltà a finanziare l’investimento in beni pubblici, quali infrastrutture, homeland security e la rete di sicurezza per gli strati sociali più poveri, e potranno farlo solo a prezzo di più elevati tassi d’interesse reale e contrazione dei consumi domestici.

In questo contesto, l’episodio della richiesta di Chapter 11 da parte di Delphi deve essere interpretato come l’ennesimo episodio di materializzazione di una contingent liability per l’economia statunitense. Il dissesto di Delphi non rappresenta solo il tredicesimo default nella storia americana per entità degli attivi, ed il più grave nel settore auto, ma rischia di avere ricadute anche sull’ex casa-madre General Motors che nel 1999, all’atto dello spinoff, si impegnò a garantire le prestazioni integrative, previdenziali e sanitarie per alcune categorie di lavoratori Delphi aderenti al sindacato UAW (United Auto Workers). Secondo le interpretazioni della stessa GM, l’accollo di tale debito potrebbe toccare un massimo di 11 miliardi di dollari. Per una nazione che ha sempre ritenuto che “ciò che è buono per GM, è buono per l’America”, si tratta di uno sviluppo da non prendere alla leggera.

Mentre i mercati del credito segnalano che l’evento-Delphi è finora considerato come del tutto idiosincratico, cioè specifico e limitato all’impresa coinvolta, senza effetto sistemico di contagio, non si deve dimenticare che stime recenti quantificano in 450 miliardi di dollari il deficit cumulativo dei piani pensionistici integrativi gestiti da singole aziende, ed in 150 miliardi di dollari il deficit dei piani gestiti congiuntamente da più datori di lavoro (fonte: Pension Benefit Guaranty Corporation), senza contare i circa 1500 miliardi di dollari dei piani-pensione gestiti dai governi statali e locali. I recenti casi di Chapter 11 che hanno coinvolto Delta e Northwest Airlines hanno di nuovo attirato l’attenzione sul rischio di ulteriori flessioni di gettito fiscale per il governo federale.

A differenza dei casi Enron e Worldcom, dove il fallimento fu causato da scandali contabili, il dissesto di Delphi è frutto della pressione competitiva globale, della lievitazione del costo del lavoro, causata anche e soprattutto dagli oneri relativi ai benefit di pensionamento.
Ma c’è anche e soprattutto dell’altro: gli Stati Uniti, che finora erano stati pressoché da soli sul pianeta ad abbracciare la “distruzione creatrice” delle ristrutturazioni aziendali, stanno venendo progressivamente affiancati da altri paesi. Per semplificare, esiste una doppia fase dell’impatto macroeconomico delle ristrutturazioni aziendali. Nella prima, prevalgono chiusura d’impianti, outsourcing e distruzione netta di posti di lavoro, con conseguente declino di reddito, fiducia dei consumatori e consumi. Nella seconda fase, l’equilibrio si sposta verso rinnovo, espansione e creazione netta di nuova occupazione, che alimentano sviluppo del reddito e dei consumi. Il Giappone, dopo un decennio di ristrutturazioni, si trova oggi molto prossimo alla “fase 2”, mentre la Germania è ancora nella “fase 1”, ma procede speditamente verso la 2, come testimoniato dalla progressiva riduzione del gap tra posti di lavoro distrutti e creati. Ecco quindi che gli Stati Uniti rischiano di perdere il proprio “premio di ristrutturazione”, quello che finora ha garantito loro la fiducia dei capitali internazionali, attratti dagli elevati rendimenti garantiti dall’attitudine schumpeteriana caratteristica di quel sistema-paese. In un mondo reso più flessibile anche nelle aree ove giace il tesoro del surplus di risparmio, gli Stati Uniti rischiano una dolorosa correzione. E’ innegabilmente vero che questo tormentone della correzione del deficit delle partite correnti americano ricorda la Torre di Pisa, ma potremmo ricordare quello che George Eliot scrisse in Silas Marner:

    “Il senso di sicurezza molto spesso deriva dall’abitudine più che dal convincimento. Il lasso di tempo durante il quale un dato evento non si è realizzato viene costantemente utilizzato, in questa logica dell’abitudine, come ragione per la quale l’evento non dovrebbe mai accadere, anche quando quel lasso di tempo è precisamente la condizione aggiunta che rende l’evento imminente.”

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