Quale è il legame tra fascismo e socialismo? Secondo Ludwig Von Mises, essi rappresentano stadi di un continuum di controllo economico, che inizia con l’intervento sul libero mercato, si muove verso irregimentazione e rigidità crescenti, marcia verso il socialismo al crescere dei fallimenti dell’intervento pubblico, e termina in dittatura. Ciò che ha caratterizzato la variante fascista dell’interventismo è stato l’affidamento sull’idea di stabilità per giustificare l’estensione del potere dello stato. Le grandi imprese ed il sindacato si allearono con lo stato per ottenere stabilità contro quelle che Murray Rothbard chiamava fluttuazioni del ciclo economico, gli alti e bassi di particolari mercati, frutto di cambiamenti nelle preferenze dei consumatori. Imprese e sindacato ritenevano, ingenuamente, che il potere dello stato potesse sostituire la sovranità del consumatore con la sovranità dei produttori sulle proprie industrie, mantenendo al contempo l’elevata produttività creata dalla divisione del lavoro.
All’inizio, i fascisti utilizzarono la spesa pubblica, soprattutto di guerra, per eliminare le fluttuazioni cicliche dell’economia. Per estendere il proprio controllo, i fascisti rafforzarono la spesa fiscale con debito ed inflazione monetaria. In questo modo, essi non solo speravano di controllare un numero crescente di settori produttivi, ma anche di guadagnare il supporto della popolazione, generando un’artificiale ed effimera prosperità economica. Ciò che invece ottennero fu di avviare il ciclo di euforia-depressione, noto nella letteratura economica anglosassone come boom-bust cycle, ed utilizzarono la fase di depressione come opportunità per estendere ulteriormente il proprio potere, socializzando l’investimento con regolamentazioni, ovviamente sostenendo che ciò avrebbe stabilizzato le fluttuazioni del ciclo economico.
I fascisti trovarono una giustificazione teorica alle politiche di stabilizzazione nell’opera di John Maynard Keynes. Keynes riteneva che l’instabilità del capitalismo derivasse dal libero gioco che esso consentiva agli “animal spirits” degli investitori, i cui eccessi di ottimismo e pessimismo determinavano euforia e depressione nell’economia. Keynes propose quindi di introdurre controlli statali su entrambi i lati dei mercati creditizi. Da un lato, una banca centrale (assoggettata all’esecutivo) con il potere di inflazionare l’offerta di moneta attraverso l’espansione del credito, e quindi in grado di determinare il finanziamento del capitale; dall’altro lato, una politica fiscale e di regolamentazione in grado di socializzare l’investimento. Per consigliare questa linea d’intervento, Keynes scrisse una lettera aperta al presidente Roosevelt, pubblicata dal New York Times il 31 dicembre 1933:
In a field of domestic policy, I put in the forefront, a large volume of loan expenditure under government auspices. I put in the second place the maintenance of cheap and abundant credit. . . . With these . . . I should expect a successful outcome with great confidence. How much that would mean, not only to the material prosperity of the United States and the whole world, but in comfort to men’s minds through a restoration of their faith in the wisdom and the power of government
Ma ciò che più turba, e che ancora oggi viene passato sotto silenzio dalla pubblicistica liberal e progressista, fu l’entusiasmo con cui Keynes propagandò la propria teoria nella Germania nazista, paese e regime ritenuti ottimali per la sua implementazione e riuscita. Nella prefazione all’edizione tedesca della Teoria Generale, pubblicata nel 1936, Keynes scriveva:
The theory of aggregate production, which is the point of the following book, nevertheless can be much easier adapted to the conditions of a totalitarian state than the theory of production and distribution of a given production put forth under conditions of free competition and a large degree of laissez-faire.
Così, crescenti dosi di regolamentazione, direttamente commisurate al fallimento dei controlli in precedenza introdotti, stabilirono il sentiero attraverso cui il pensiero fascista delle origini iniziò ad evolvere verso modelli di pianificazione centralizzata. Occorre contestualizzare e storicizzare l’analisi, ma ogni qual volta la libertà dei consumatori è stata conculcata, si è aperta la strada a drastiche riduzioni di libertà e benessere collettivo, in un continuum che ha ad un estremo, storico ed ideologico, il totalitarismo e all’altro estremo la burocratizzazione asfissiante, la mortificazione del principio di responsabilità individuale ed il corporativismo, talvolta presentato nella veste patriottica di “concertazione”. Vale a dire, i tratti distintivi della patologia che oggi affligge la società italiana.