Di propaganda in propaganda

Sul Corriere di oggi il professor Giavazzi prende decisamente posizione a favore dell’incremento della tassazione sui titoli di stato, ed aggiunge alcune argomentazioni a supporto di tale posizione. Alcune sono condivisibili, altre meno. Vediamole in dettaglio. Scrive Giavazzi:

L’attuale regime fiscale infatti favorisce i ricchi a scapito dei poveri e chi possiede per lo più titoli di Stato, rispetto alle imprese. Il 10% più ricco delle famiglie possiede il 40% di tutte le attività finanziarie; il 10% più povero l’1,2%. Quando lo Stato tassa i cittadini più poveri per pagare gli interessi sul debito pubblico preleva il 23% (l’aliquota minima sui redditi da lavoro) e lo trasferisce per lo più ai ricchi, i quali, sugli interessi che percepiscono, pagano solo il 12,5%.

In termini di equità, e posta la situazione in questi termini, Giavazzi ha inequivocabilmente ragione: tuttavia il professore omette di specificare che il ruolo di soggetti passivi d’imposta Irpef e detentori di titoli di Stato spesso tende a coincidere o a sovrapporsi in capo alle stesse persone. Un lavoratore dipendente possessore di titoli di stato si troverà quindi ad avere due tipologie di tassazione: al 23 per cento (se si trova in quello scaglione d’imposta) per il proprio reddito da lavoro, ed al 12.5 per cento per la parte del suo reddito generata da attività finanziarie, siano esse titoli di stato, fondi comuni, dividendi azionari, obbligazioni societarie. Ora, se vogliamo riequilibrare il carico tributario a pressione fiscale invariata, occorre ridurre l’aliquota Irpef in misura pari all’incremento della tassazione sulle attività finanziarie. E’ ovvio che parliamo di un dato medio: alcuni avranno uno sgravio, altri un aggravio, ma occorre essere consapevoli che se il risparmiatore riceve minori interessi sulle attività finanziarie, allora parte della riduzione del cuneo fiscale dovrebbe andare direttamente nelle sue tasche, non in quelle dell’azienda. Diversamente, stiamo sommando pere a mele, e dovremmo avere l’onestà intellettuale per dire che stiamo trasferendo ricchezza alle aziende (beneficiarie della riduzione del costo del lavoro) prelevandola dalle tasche dei risparmiatori. Giavazzi prosegue:

Titoli identici ma con diversa tassazione segmenterebbero il mercato e ne ridurrebbero la liquidità, che è un fattore cruciale per la trasparenza dei prezzi. L’aumento dell’imposta sui titoli di Stato già posseduti ne ridurrebbe i rendimenti, ma non il prezzo: cioè una famiglia che possiede un Btp (direttamente o attraverso un fondo comune di investimento) riceverebbe una cedola un po’ più bassa, ma il valore di mercato del titolo non cambierebbe. Infatti la gran parte dei titoli pubblici è detenuta da investitori istituzionali che non pagano la ritenuta: sono costoro a determinare i prezzi. Certo, la famiglia vedrebbe decurtate le sue cedole, una perdita in parte compensata dalla riduzione del prelievo sui conti correnti bancari.

Qui Giavazzi compie l’errore di assimilare i conti correnti ad attività finanziarie effettivamente fruttifere. Poiché il tasso medio sui conti correnti è prossimo allo zero, anche un taglio di sette punti percentuali sulla tassazione non determinerebbe una loro maggiore redditività. Di fatto, Giavazzi ripete la filastrocca di Fassino: taglieremo le tasse ai conti correnti, posseduti dal 64 per cento delle famiglie, ergo taglieremo le tasse sul risparmio al 64 per cento delle famiglie. Si, ma su quali consistenze finanziarie effettive? Se a Fassino, in quanto politico, è consentito fare della demagogia, a Giavazzi lo è assai meno. Inoltre, è vero che gran parte dei titoli di stato sono posseduti da investitori istituzionali, ma in questa categoria rientrano anche e soprattutto i fondi comuni d’investimento, in cui le famiglie investono una parte molto ampia dei propri risparmi. Attualmente, i fondi sono tassati al 12.5 per cento sul differenziale giornaliero della quota, sono cioè “nettisti”, e non dagli investitori istituzionali non residenti, i cosiddetti “lordisti”: e se il valore della quota del fondo di oggi è inferiore a quella di ieri, tale differenza viene maggiorata del 12.5 per cento, a titolo di credito d’imposta. Un effetto collaterale dell’aumento di tale aliquota fiscale sarà quello di ridurre i rendimenti sui fondi comuni obbligazionari e monetari a livelli del tutto incompatibili con i costi di struttura delle società di gestione, che dovranno essere tagliati in modo più rapido ed aggressivo rispetto a quanto fatto finora. Per molti aspetti questo sarebbe un bene ma ribadiamo, quando Giavazzi scrive che “la famiglia vedrebbe decurtate le sue cedole, una perdita in parte compensata dalla riduzione del prelievo sui conti correnti bancari” dice, nella più benevola delle ipotesi, un’inesattezza.

In sintesi, Giavazzi dovrebbe sapere (e lo sa benissimo, in realtà) che l’aumento della cedolare secca dovrà essere applicato a tutte le attività finanziarie, non solo ai titoli di stato, e che occorre valutare l’effetto di gettito non sui saldi attuali, bensì sulla ricomposizione degli attivi finanziari delle famiglie che verrà prodotta dalla nuova tassazione. Esercizio molto teorico, e ad elevato margine d’incertezza. Quello che è certo, e Giavazzi lo scrive esplicitamente, è che occorrerà lavorare per evitare segmentazioni dei mercati finanziari, che poi sono quelle che rendono illiquide le attività finanziarie e rischiano di creare problemi per il classamento del debito pubblico italiano.Ecco perché chi sostiene che “non tasseremo i bot già emessi” dice un’idiozia, per ignoranza e/o malafede. In alternativa, anche per evitare di scalare vetrate a mani nude, occorrerebbe specificare che i proventi da attività finanziarie dovrebbero essere inclusi nell’imponibile Irpef, e quindi tassati ad aliquota marginale del contribuente. Se solo si avesse l’onestà intellettuale per avanzare una proposta del genere, senza ricorrere ad espedienti dialettici. In quel caso, tuttavia, questa leggendaria manovra di tassazione del risparmio si rivelerebbe per quello che è: una tosatura della classe media, dal gettito risibile e del tutto insufficiente a generare il gettito necessario per ridurre il cuneo fiscale.

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