Tendenze

Uno degli esercizi intellettuali più graditi a politici, economisti e giornalisti è rappresentato dalla proiezione futura delle tendenze attuali. Un gioco di società tanto suggestivo quanto futile, perché destinato ad essere invalidato dall’adozione di misure correttive, o dall’irrompere sulla scena di elementi imprevisti, tali da alterare il corso della storia. L’economista Glenn Hubbard, ex presidente del Council of Economic Advisors del presidente degli Stati Uniti, segnala l’insostenibilità fiscale dei cosiddetti entitlements del bilancio federale: quelle voci di spesa che in Italia, per consolidata tradizione bipartisan, siamo soliti definire “diritti acquisiti” dimenticando che, oltre ai diritti, in una comunità nazionale dovrebbero esistere anche “doveri acquisiti”, in primo luogo quello di non danneggiare le generazioni future, seppellendole sotto una montagna di debito. Scrive Hubbard, sul Wall Street Journal:

“Imagine the nightmare of a tax burden 50% higher — not so farfetched as it sounds….The Congressional Budget Office regularly quantifies these shadows of the Ghost of Tax Day Future. Their forecasts are not sanguine. A generation from now, absent any changes, increases in Social Security and Medicare spending alone are projected to consume 10 more percentage points of national GDP than they do today.”

C’è qualcosa di realmente inedito in questa frase? No, ma come scriveva Orwell, “siamo ora sprofondati in un abisso dove la riaffermazione dell’ovvio è il primo compito degli uomini intelligenti”.

L’altra linea di tendenza, decisamente più ottimista, è quella espressa dall’Economist di questa settimana riguardo la crisi senza fine della Vecchia Europa, dopo l’eliminazione del progetto di legge sul Contratto di Primo Impiego in Francia ed il rancoroso esito delle elezioni politiche italiane. Secondo il settimanale, solo una “crisi diabolica” potrà avviare un radicale processo di riforme. A supporto di questa tesi, l’Economist cita alcuni esempi del passato:

“One reason for believing that reform can happen, even in Italy and France, is that so many other European countries have shown the way. Britain faced economic and social melt-down in 1979; there followed a decade of Thatcherite reform. Admittedly, Britain is not in the euro, but the Netherlands is. That country had an acute case of what became known as the “Dutch disease” in 1982; a string of reforms were then made that led, a decade later, to talk of a Dutch miracle. Another small country now in the euro, Ireland, almost fell off the cliff into poverty and bankruptcy in 1987; yet, after some years of painful change, it had transformed itself into the “Celtic Tiger”. Similarly, Finland became an economic basket-case in 1990; it then implemented reforms that have today helped to make it on some assessments the world’s most competitive economy, ahead even of the (far bigger) United States.”

In caso riteneste troppo leibniziana questa proiezione dell’Economist, potete sempre aderire alla tesi del Financial Times, sul default prossimo venturo del Bel Paese, ce n’è per tutti i gusti:

” (…) This is why there are parallels between Italy today and the UK in 1992. Britain’s political commitment to the ERM appeared as unshakable then as Mr Prodi’s support for the euro looks now. But Britain was neither politically nor economically ready to live under a regime of semi-fixed exchange rates. Italy’s membership of the euro is based on similarly shaky foundations. Fourteen years ago, it took investors a few days to expose a political lie.”

Superfluo aggiungere che l’adesione ideologica ad uno di questi metascenari è funzione della loro strumentalità a legittimare le proprie posizioni politiche e, in Italia, dell’elevatissimo livello di provincialismo della nostra classe politica, sempre alla ricerca di un ipse dixit per sfidare il senso del ridicolo.

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