Il consiglio dei ministri di venerdi 1 dicembre ha approvato due provvedimenti che potenzialmente rappresentano altrettante svolte epocali per il nostro paese. Con il primo, è stata decisa la presentazione di un disegno di legge delega relativo al “riordino dell’accesso alle professioni intellettuali, alla riorganizzazione degli ordini, albi e collegi professionali, al riconoscimento delle associazioni professionali, alla disciplina delle società professionali e al raccordo di tali disposizioni con la normativa dell’istruzione secondaria superiore e universitaria.” Un disegno di legge delega è, per sua natura, un parto della fantasia. Dapprima il governo necessita dell’ottenimento della delega stessa dal parlamento, ed in seguito procede ad emettere i relativi decreti attuativi. Nessuna meraviglia, quindi, che l’annuncio delle linee-guida sia alquanto accattivante:
Libero accesso alle professioni, senza vincoli di numero (fuorché per le professioni caratterizzate dall’esercizio di funzioni pubbliche o dall’esistenza di uno specifico interesse generale, come quella notarile); eliminazione dei vincoli territoriali nell’esercizio dell’attività; libera concorrenza e possibilità di effettuare pubblicità dell’attività professionale quanto a costi, specializzazioni e servizi offerti, al fine di consentire all’utente una scelta informata; abolizione dell’obbligo di tariffe minime (al cui ammontare verrà comunque posto un limite massimo), con garanzia che il cliente ne debba essere preventivamente informato; tendenziale riduzione del numero degli ordini, albi e collegi professionali con la significativa novità costituita dalla previsione che gli stessi possano trasformarsi in associazioni professionali riconosciute di natura privatistica ma assoggettate al controllo pubblico (a tutela dell’importanza dei compiti demandati).
La valutazione della validità di una riforma può e deve essere fatta in base agli effetti da essa generati: segnatamente apertura del mercato e riduzione del costo di erogazione del servizio. Il giudizio su questo provvedimento resta quindi necessariamente sospeso, ma ci corre l’obbligo di segnalare che, nelle more del conferimento della delega, stiamo assistendo ad un vero e proprio assalto alla diligenza da parte di associazioni professionali autoregolamentate in regime privatistico, smaniose di acquisire lo status di Ordine, con tutti i tangibili benefici che ciò implica. Il diavolo si nasconde nei particolari, soprattutto quando ci sono di mezzo le italiche corporazioni. Così, la grancassa battuta da governo e maggioranza sulla istituzione di un “sistema duale”, in cui coesistano Ordini opportunamente riformati ed associazioni professionali, copre con il proprio frastuono un’analisi più meditata.
Il sistema duale che il governo vuole realizzare prevede, ad esempio, di limitare le riserve e la possibilità di trasformare gli Ordini in associazioni quando vengano a mancare “specifici interessi pubblici”. Ottimo, ma chi decide quali sono gli interessi pubblici? Questo non è dato sapere. Ordini e associazioni sono stati equiparati sul piano degli “interessi pubblici meritevoli di tutela”, senza altra specificazione: così che è lasciato al legislatore, in assenza di criteri direttivi, il potere di decidere quando “è necessario il ricorso al sistema ordinistico” o la trasformazione in associazione. E qui è verosimile attendersi una furiosa attività di lobbying, che possiamo facilmente profetizzare sarà tesa ad ampliare a dismisura l’area degli Ordini e del protezionismo da essi garantito. Nessuna indicazione di cosa sia una professione intellettuale: né esplicita né implicita, attraverso la caratteristica dell’alta formazione, vista la persistenza del requisito della scuola secondaria superiore. Nessuna indicazione, neppure di principio, sulla ripartizione dei poteri di regolamentazione tra Stato e Regioni. Ad oggi, solo un bello spot pubblicitario per la conferenza stampa di fine anno del premier, che potrà affermare di essere in largo anticipo nella realizzazione del programma. Vi ricorda nulla?
L’altro provvedimento “epocale” licenziato dal Consiglio dei Ministri di venerdi è quello relativo alla “privatizzazione” di Alitalia:
Il Consiglio dei Ministri, nella seduta odierna, ha deliberato di procedere alla cessione di una quota di controllo di Alitalia da parte del Ministero dell’economia e delle finanze, che attualmente detiene il 49,9% del capitale della società, mediante una procedura competitiva a trattativa diretta, rivolta a potenziali acquirenti.
La decisione è stata assunta in coerenza agli intendimenti espressi dal Governo lo scorso 10 ottobre di porre la ricerca di alleanze internazionali strategiche al centro della propria azione politica, riservandosi di effettuare entro il gennaio 2007 le scelte definitive riguardanti il futuro dell’Alitalia.
Occorre focalizzarsi sull’espressione “cessione di una quota di controllo“: quello è lo spartiacque tra una privatizzazione ed una sceneggiata. Riguardo Alitalia, il governo Prodi sembra muoversi in continuità con l’azione del governo Berlusconi:
La procedura individuata, ritenuta la più idonea tra quelle indicate nel Decreto del Presidente del Consiglio del 3 febbraio 2005 (governo Berlusconi, ndPh), sarà curata dal Ministero dell’economia e delle finanze con il supporto di propri advisor e prenderà avvio mediante la pubblicazione sulla stampa di un avviso in cui si farà richiesta di manifestare interesse all’acquisto della suddetta partecipazione di controllo.(…) Il processo di cessione costituisce il completamento della privatizzazione della società, la cui prima fase, che prevedeva ai sensi del DPCM sopra citato, il mantenimento in capo allo stato di una quota di partecipazione non inferiore al 30% del capitale, si è conclusa lo scorso dicembre mediante la diluizione al di sotto del 50% della partecipazione pubblica al capitale di Alitalia realizzata in occasione dell’aumento di capitale della stessa.
Un percorso obbligato, visto il rischio di incorrere nell’apertura di un procedimento di infrazione da parte dell’Unione Europea per aiuto di stato. Nel luglio 2005 il governo Berlusconi decise di procedere ad un massiccio aumento di capitale per ricostituire il capitale di Alitalia, azzerato dalle perdite di esercizio. Ai soci vennero offerte nuove azioni, in rapporto di tredici ogni due vecchie, al prezzo di 0,8 euro. All’inizio di novembre, prima dello stacco del diritto, l’azione quotava 6,4 euro e la società capitalizzava circa 840 milioni. In linea teorica, dunque, la quota dello Stato (62,3 per cento) valeva oltre 500 milioni. La decisione di emettere le nuove azioni a un prezzo molto basso è servita a facilitare il collocamento e ridurre i rischi del consorzio di garanzia. Ma ha accresciuto la perdita per lo Stato. Lo Stato italiano, quindi, ha versato 489 milioni per scendere al 49 per cento, mentre il mercato, con i 517 milioni garantiti dalle banche, è salito al 51 per cento. In pratica, è come se il valore della partecipazione dello Stato prima dell’aumento fosse stato quasi azzerato, al netto dei (limitati) ricavi derivanti dalla cessione dei diritti. Di fatto, un aiuto di stato erogato in forma posticciamente privatistica. E’ ancora vivo in noi il titolo con cui il Tg5 aprì la propria edizione delle 20, il giorno dell’annuncio dell’operazione: “Il governo privatizza l’Alitalia“. Oggi, stessi titoli.
Come procederà il governo Prodi? Come saranno ripartiti i posti in consiglio d’amministrazione? Verrà creata una holding che minimizzi l’esborso degli azionisti di controllo, riproducendo una struttura piramidale? Oppure verrà creatà una BadCo., cioè una società a cui conferire le perdite operative e le attività non redditizie (esuberi di personale inclusi), destinata in prospettiva ad essere posta in liquidazione? Il Tesoro tenterà di creare un patto di sindacato con i nuovi soci di controllo oppure si limiterà a svolgere il ruolo di socio finanziatore, in attesa di incassare i primi dividendi, se mai ciò avverrà? E ancora: come verranno gestite le relazioni industriali in un’azienda infestata da 13 sigle sindacali onnipotenti? Anche qui, il governo Prodi ha fissato alcuni grandi principi, che certificano l’intangibilità del bubbone Alitalia:
La selezione dei potenziali acquirenti terrà conto dei profili di interesse generale (livelli occupazionali, adeguata offerta dei servizi e copertura del territorio), oltre che, ovviamente, dei contenuti economici delle offerte e di una accurata analisi dei piani industriali che verranno presentati dai soggetti interessati al rilievo della quota di controllo di Alitalia, anche al fine di verificarne la compatibilità con gli obiettivi di risanamento, sviluppo e rilancio dell’azienda, ritenuti imprescindibili dal Governo.
Che accadrà quando tali solenni principi risulteranno incompatibili con altri principi, quelli della economicità e redditività d’impresa? Semplice: i primi prevarranno sui secondi, si proseguirà business as usual fino all’azzeramento della nuova patrimonializzazione, ed il gioco riprenderà daccapo. Ma allora, si chiederanno i nostri lettori, per quale motivo le banche straniere ed italiane dovrebbero partecipare alla ricapitalizzazione, perdendo soldi? Per un motivo di business relationship: si perdono soldi su una singola operazione, se ne guadagnano altri (molti altri) partecipando ai collocamenti del Tesoro in occasione di privatizzazioni, classamento di titoli di stato ed altre operazioni decise da via XX Settembre. Dalle banche italiane, poi, dopo il regalo rappresentato dai flussi commissionali che saranno garantiti dall’aumentato utilizzo di strumenti di pagamento in funzione anti-evasione, è verosimile non attendersi eccessive resistenze anche di fronte ad una operazione destinata a sicure minusvalenze.
Alitalia ha un badwill, cioè un avviamento negativo, rappresentato dalla manomorta politico-sindacale, che genera imponenti perdite operative. In un regime di mercato un’azienda in perdita può essere ceduta, ma il prezzo deve incorporare lo sconto per tale badwill, fino al punto di azzerare il corrispettivo di cessione. Questa è la dura realtà dei fatti, tutto il resto sono trionfalismi ed effetti-annuncio. Pagati dai contribuenti italiani.
Update: la valutazione del Wall Street Journal (richiesta subscription). Qui un breve estratto:
“La vendita della quota Alitalia da parte di Roma è improbabile che stimoli l’inversione di tendenza.(…) Nel documento di vendita il governo ha stabilito che il nuovo investitore debba accettare di mantenere l’occupazione sostanzialmente ai livelli attuali di 18mila dipendenti e deve anche garantire simili livelli del servizio. Cio’ significa verosimilmente il mantenimento di rotte nazionali non profittevoli che servono collegi elettorali importanti. (…) se queste due condizioni rendono la decisione del governo di ridurre la quota politicamente appetibile, rendono anche praticamente impossibile ogni seria riduzione dei costi”