Depauperamento

Archiviata la Finanziaria 2007, è tempo di bilanci. Un articolo, a firma di Marco Pagano e Tullio Jappelli, pubblicato su lavoce.info, illustra efficacemente un effetto di lungo periodo prodotto dalla legge di bilancio appena approvata. Si tratta del controverso provvedimento di trasferimento del trattamento di fine rapporto dalle imprese con oltre 50 dipendenti ad apposito fondo Inps, in caso i lavoratori di tali imprese decidessero di non aderire ad alcuna forma di previdenza complementare. Abbiamo già scritto più volte in merito a questa cervellotica iniziativa, vero trucco contabile per garantire un effimero equilibrio di cassa (ma non certo reddituale) all’Inps. Oggi, l’articolo di Pagano e Jappelli evidenzia un altro, meno immediatamente evidente, effetto negativo di lungo periodo: il trasferimento del tfr inoptato all’Inps è destinato a produrre la riduzione dell’offerta di risparmio privato nell’economia, e quindi a rallentare il processo di formazione del capitale, che è tra le determinanti della crescita di lungo periodo.

Per comprendere i motivi di tale fenomeno, è importante avere presente che tale misura segna il passaggio da un sistema a capitalizzazione ad uno a ripartizione, cioè va nella direzione opposta a quanto occorrerebbe fare per puntare alla stabilizzazione finanziaria ed all’accumulazione di capitale dell’economia. Spiegano Pagano e Jappelli:

(…) Nel regime attuale, il Tfr è gestito secondo il principio della capitalizzazione. Finora, il Tfr è stato una posta contabile registrata nel passivo dello stato patrimoniale delle imprese. Non genera uscite di cassa per le imprese se non per le liquidazioni pagate nell’anno ai dipendenti che vanno in pensione o a quanti chiedono un anticipo e, per il periodo in cui non è corrisposto al lavoratore, resta a disposizione dell’impresa. Si tratta quindi di una passività a media e lunga scadenza, assimilabile ai prestiti obbligazionari, e rappresenta in quanto tale una fonte di finanziamento importante per le imprese.
Dal punto di vista concettuale, il Tfr oggi non è diverso da un fondo finanziario che investe unicamente in obbligazioni e garantisce un rendimento fisso differito. L’unica differenza è che si tratta di un fondo non diversificato, poiché investito nel debito del solo datore di lavoro (ma comunque assicurato dall’Inps). Con questo fondo, le imprese finanziano una parte del proprio attivo: ad esempio, possono usarlo per attuare un progetto di investimento, per acquisire immobili o per investire in altre attività finanziarie. A livello aggregato, cioè dell’intera economia, queste risorse sono un’aggiunta netta alla formazione di capitale.
Il nuovo regime istituito presso l’Inps agirà con regole completamente diverse, basate sul principio della ripartizione. Il fondo non darà luogo ad accumulazione, ma sarà immediatamente destinato ad aumentare alcune voci di spesa pubblica. Il passaggio da un regime di Tfr a capitalizzazione a un regime a ripartizione riduce quindi lo stock di capitale privato dell’economia. In un sistema a capitalizzazione, la ricchezza privata è più elevata perché i lavoratori accumulano, anno dopo anno, un fondo presso le imprese. A fronte di questa maggiore ricchezza le imprese finanziano una parte del proprio attivo. In un sistema a ripartizione il fondo non viene accumulato, ma immediatamente trasferito a maggiori spese.

Di fatto, quindi, la manovra tenta di estendere, in nome di una malintesa socialità, quel principio di ripartizione che tali e tante devastazioni ha causato e sta causando al sistema pensionistico italiano. E lo fa frenando l’accumulazione di capitale in un sistema economico che è già affetto da insufficiente crescita della produttività.

Pagano e Jappelli stimano che, a regime, tale sottrazione di risparmio al settore privato potrebbe raggiungere i 50 miliardi di euro, pari al 3 per cento del reddito nazionale. L’unica speranza di contrastare tale decumulo di risorse consiste nell’effettuazione di investimenti pubblici per uguale entità. Ma, come scrivono gli autori,

Cosa garantisce che le somme così sottratte all’accumulazione di capitale del settore privato vengano compensate da nuovi progetti di investimento pubblici, cioè progetti che non sarebbero stati effettuati in assenza di questa riforma? E non piuttosto dal ripianamento delle perdite delle Ferrovie dello Stato o dell’Anas, oppure a progetti di investimento pubblici che sarebbero stati effettuati comunque?

Nulla, in effetti, non ci sono garanzie. A questa grande operazione di depauperamento della capacità di accumulazione di capitale dell’economia italiana si aggiunge la prossima maggiore tassazione del risparmio delle famiglie, nota come “armonizzazione”, destinata ad impoverire la futura capacità di consumo di un paese, disincentivando offerta di lavoro ed assunzione di rischio d’impresa nel presente. Dall’insieme dei provvedimenti di politica economica finora adottati dal governo Prodi emerge, quindi, il tentativo di aumentare l’intensità di lavoro dell’economia a danno dell’accumulazione di capitale, impegnando risorse future per sostenere staticamente ed illusoriamente i livelli occupazionali a spese dello sviluppo di innovazione e produttività. I danni di lungo periodo per l’economia derivanti da una simile impostazione ideologica della politica economica sono ingentissimi e non immediatamente percepibili, come dimostra l’analisi dei due autori de lavoce.

A confronto, la prodigalità del governo Berlusconi nei confronti dei pubblici dipendenti (con rinnovi contrattuali sganciati dalla produttività) appare un peccato veniale. Quello che possiamo e dobbiamo augurarci, per il 2007, è che questo governo e questa maggioranza implodano sotto il peso delle loro stesse contraddizioni, prima che possano proseguire e completare l’opera di sistematica demolizione delle già fragili strutture economiche fondamentali del paese.

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