Nei giorni scorsi il cantante Johnny Hallyday, attempata icona nazionalpopolare transalpina, ha solennemente annunciato lo spostamento della propria residenza fiscale a Gstaad, sulle Alpi bernesi, dove peraltro giù trascorre buona parte dell’anno, motivandola con l’eccessiva pressione fiscale della Rèpublique. La decisione di Hallyday ha riattizzato la vecchia guerra delle tasse che da sempre oppone la Francia alla Svizzera, accusata di fare del “banditismo fiscale” perchè rea di avere aliquote inferiori a quelle francesi, sia per le persone fisiche che per le imprese.
Certamente più inquietante, per la vecchia Europa gabelliera, è la notizia del trasferimento del quartier generale della multinazionale alimentare statunitense Kraft da Londra e Vienna a Zurigo, seguendo un percorso di “migrazione fiscale” che sta preoccupando Bruxelles al punto da indurla ad accusare Berna di violazione dell’accordo di libero scambio firmato nel 1972 con l’allora Comunità Europea, anche dopo aver costretto la Confederazione a pagare 1 miliardo di franchi svizzeri l’anno a titolo di “aiuto” per i paesi di nuovo ingresso nella Ue, in quello che ha tutta l’aria di essere un vero e proprio blackmail per concludere gli accordi commerciali bilaterali tra Unione e Confederazione.
Difficilmente, tuttavia, la Svizzera può essere accusata di concorrenza fiscale sleale, visto che l’aliquota media sulla tassazione aziendale, secondo un recente studio di KPMG, è del 21 per cento nella Confederazione, contro il 25 per cento dell’Europa a venticinque. All’interno della quale, tuttavia, esiste una grande dispersione dei dati, oscillanti tra il 38.8 per cento della Germania, il 12.5 per cento dell’Irlanda ed il 10 per cento di Cipro.
Più in generale, appare evidente che è in atto un trend planetario di riduzione della tassazione aziendale, mirato ad attrarre investimenti diretti esteri, e che anche i paesi dell’Europa Occidentale dovranno adeguarvisi. Vorremmo poter interpretare in questo senso la recente presa di posizione del presidente francese, che ha “auspicato”, nel termine di un quinquennio, una riduzione al livello del 20 per cento dell’aliquota d’imposta sulle società operanti in Francia. Chirac non ha specificato come dovrebbe essere finanziato questo taglio d’imposta, semplicemente perchè avrebbe dovuto ammettere che ciò potrebbe avvenire solo con un drastico ridimensionamento della soffocante presenza dello stato nella vita dei francesi, e con la rottura di quel sistema di élites che è alla radice dell’immobilismo delle classi dirigenti francesi, pubblica e privata. Purtroppo, sappiamo che il vecchio demagogo dell’Eliseo è maestro nel recitare a soggetto, e che le elezioni francesi si terranno tra pochi mesi. Chirac avrà quindi modo di scavalcare a sinistra la fascinosa Segolène Royal e la sua muta di antimercatisti puri e duri, promettendo ai francesi “protezione” e protezionismo, come del resto già fatto dal suo odiato compagno di rassemblement, Nicholas Sarkozy.
Ma la tendenza alla riduzione della tassazione aziendale e personale appare ormai difficilmente reversibile, ed anche i più riottosi bastioni dello statalismo clientelare degenerativo, come il nostro ottocentesco governo, saranno fatalmente costretti a misurarsi con la realtà .