E’ piuttosto nervoso, di questi tempi, il ministro per lo sviluppo economico Pierluigi Bersani. Possiamo comprenderlo: da settimane morde il freno per presentare il secondo episodio del serial sulle liberalizzazioni, ma prima la sinistra radicale poi i timori rutelliani lo hanno relegato a bordo campo, impegnato in un perenne e defatigante riscaldamento. E così il ministro diessino si è ormai ridotto all’assunzione regolare del metadone Ballarò, dove si presenta come “l’uomo che ha spacchettato l’Enel”, senza benefici tangibili per i consumatori e minandone la capacità competitiva internazionale, aggiungiamo noi. La settimana scorsa Bersani ha presentato nel salottino progressista di Giovanni Floris il suo rivoluzionario piano (peraltro, un plagio di una bizzarra petizione con abituale raccolta di firme) per abolire il costo della ricarica delle schede prepagate per cellulari, riscuotendo il caloroso applauso della claque in studio.
Bersani ha parlato della necessità di “aiutare” i giovani che utilizzano ricariche di piccolo taglio, sulle quali pesa maggiormente il costo fisso della ricarica, e nella sua foga liberalizzatrice ha finito col condizionare anche l’Antitrust, che nella propria recente indagine conoscitiva sul tema si è spinta a definire “regressiva” tale struttura di prezzo, manco fosse un’imposta. Perchè il punto è proprio questo: i costi fissi di ricarica sono una scelta di pricing dei gestori di telefonia cellulare operanti in Italia, non un’imposta su cui intervenire, magari per “ripristinarne la progressività”, come usa dire di questi tempi a Palazzo Chigi e dintorni.
I gestori di telefonia cellulare sono concessionari di licenze di trasmissione, ed utilizzano una parte dello spettro di frequenze. All’Antitrust spetta indagare l’esistenza di pratiche ed accordi restrittivi della concorrenza, in un contesto dove la barriera all’entrata è rappresentata proprio dalla concessione governativa. Quindi, più che applicare nozioni di scienza delle finanze alla politica dei prezzi di imprese private operanti in regime di supposta concorrenza, il ministro Bersani e l’Antitrust dovrebbero verificare esistenza e sussistenza di tale concorrenza. Come? Ad esempio indagando sul meccanismo di formazione del prezzo degli sms, che i gestori italiani fissano a 15 centesimi di euro l’uno, malgrado recenti studi ne ipotizzino un costo industriale addirittura inferiore al centesimo. Un più che probabile caso di accordo collusivo di limitazione della concorrenza. Né bastano le giustificazioni dei gestori, che affermano che con le promozioni il costo degli sms scende considerevolmente sotto i 15 centesimi. L’Italia, al momento dell’assegnazione delle licenze di telefonia cellulare, ha “dimenticato” di prevedere l’esistenza dell’operatore mobile virtuale, cioè del gestore che svolge attività di pura rivendita del servizio di telefonia cellulare, utilizzando la rete degli operatori esistenti ma dotato di propria organizzazione, commerciale e tecnica.
In Italia il reseller di connettività esiste su rete fissa, ed è la svedese Tele2, mentre nel mobile i gestori incumbent si sono finora opposti all’ingresso di affittuari della loro rete. Ciò che appare interessante, soprattutto per quanti vedono l’antitrust come la risposta ai mali del mondo, è che la nostra Autorità Garante della concorrenza e del mercato pur avendo compiutamente definito il profilo giuridico del Mobile Virtual Network Operator (MVNO), si è detta contraria ad imporne l’ingresso nel mercato italiano, utilizzando tra le motivazioni anche l’esigenza di tutelare il recupero degli investimenti degli operatori incumbent, stimato nell’anno 2000 in “non meno di otto anni”. Non sappiamo se ci troviamo di fronte ad un caso da manuale di “cattura” di un’agenzia regolatoria da parte del controllato, con la benevola negligenza dei politici (la delibera antitrust in questione è stata assunta nel 2000, regnante il governo Amato), ma certamente sappiamo che, se il ministro Bersani vuole realmente liberalizzare qualcosa nell’ambito della telefonia, dovrebbe partire da una approfondita analisi delle condizioni di concorrenza e profittabilità del settore, dove proliferano piani tariffari astrusi ai più, ma che hanno la caratteristica di ricondursi a tre-quattro super-profili di consumo omogenei, senza inasprire la dinamica competitiva né spostare significative quote di mercato in quello che appare ormai un mercato maturo.
Intervenire sulla struttura di prezzi offerti da un’impresa privata disinteressandosi della dinamica competitiva di settore è solo demagogia e dirigismo, il vecchio amarcord del controllo dei prezzi che tanto piace al nostro consumerismo demagogico, sindacati e partiti della vetero-sinistra, e che serve solo ad entusiasmare il primo Floris che passa per strada ed i suoi motivatissimi figuranti.
P.S. E’ di oggi una notizia che i nani pennivendoli del mainstream media seppelliranno nei recessi delle loro testate: l’Index of Economic Freedom elaborato dalla Heritage Foundation di Washington e dal Wall Street Journal, con la collaborazione di alcuni think tank europei fra cui, per l’Italia, l’Istituto Bruno Leoni, segnala l’Italia al sessantesimo posto, dal quarantaduesimo occupato lo scorso anno. L’Indice descrive così, sinteticamente, la situazione italiana:
“La libertà dall’intervento dello Stato, i diritti di proprietà e la libertà dalla corruzione sono relativamente deboli. La spesa pubblica e le aliquote fiscali raggiungono livelli straordinariamente elevati al fine di finanziare un pervasivo stato assistenziale. Se raffrontata a quella di altri Paesi, la corruzione non è particolarmente grave, ma è elevata per un’economia avanzata. Il compito di garantire il rispetto delle normative pubbliche e delle sentenze giudiziarie viene ulteriormente ostacolato da un’amministrazione pubblica inefficiente”.
Immaginate dove potrà posizionarsi il ranking dell’Italia il prossimo anno, quando la rilevazione dell’Indice avrà incorporato gli effetti della Finanziaria 2007, un altro passo compiuto dal nostro paese verso il socialismo assistenziale. Eppure, quest’anno non sentiamo gli strepiti dei liberisti del Tg3 né leggiamo le dotte articolesse dei liberoscambisti dell’Unità. E’ proprio vero, la libertà di stampa in Italia è gravemente minacciata.