Consumerismo socialista

L’Adusbef, una delle tante associazioni di consumatori che infestano questo paese di analfabeti economici, si è lanciata nell’ultima di una lunga serie di crociate: la messa in mora delle banche italiane, ree di non aver adeguato i tassi sui conti correnti ai ripetuti aumenti del tasso-chiave della Banca Centrale Europea. Sul sito di Adusbef fa bella mostra di sé il modulo di diffida da inviare alla propria banca, per ottenere la restituzione del maltolto, che calcoli metodologicamente imprecisati dell’associazione quantificherebbero addirittura in un miliardo di euro. Tuttavia, se i signori di Adusbef si fossero presi la briga di leggere il testo del decreto Bersani, convertito con modificazioni nella legge 248 del 4 agosto 2006, avrebbero (forse) potuto comprendere di aver capito assai poco di quella legge.

L’art.10, punto 5 del decreto-legge 223 del 4 luglio 2006, che modifica l’articolo 118 del decreto legislativo 1° settembre 1993, n. 385 recita:

“Le variazioni dipendenti da modifiche del tasso di riferimento devono operare, contestualmente e in pari misura, sia sui tassi debitori sia su quelli creditori.”

Come segnalavamo già all’indomani dell’approvazione del decreto Bersani, lo scorso luglio, tale previsione di legge deve intendersi nel senso che, ogni qualvolta una banca offre una remunerazione su proprie passività che è contrattualmente legata al tasso di riferimento della Bce, essa dovrà provvedere a variare tale remunerazione al variare del tasso di riferimento medesimo.

Si tratta di una disposizione che tenta, dirigisticamente, di contenere la forbice tra tassi attivi e tassi passivi bancari, cioè il differenziale tra quanto una banca chiede ai propri debitori e quanto paga ai propri creditori, sotto la condizione che tali tassi siano formalmente agganciati al tasso di riferimento della Banca Centrale Europea. Peccato che siano molto poche le banche che legano contrattualmente la remunerazione dei propri conti correnti al tasso-chiave della Bce, e che quindi non sono tenute a variare i tassi corrisposti ai correntisti. Le banche, peraltro, dispongono di una molteplicità di strumenti di raccolta diretta: dal mercato interbancario (transazioni tra banche temporaneamente in surplus di depositi ed altre in temporaneo deficit di liquidità) e, nell’ambito dei rapporti con la clientela ordinaria, conti correnti, depositi a risparmio, certificati di deposito e proprie obbligazioni. Ciò significa, in soldoni, che i tassi praticati sui conti correnti non riflettono l’esigenza di reperimento di fondi da parte delle banche. Ed anche, detto in altri termini, che le sedicenti associazioni di consumatori ed i politici dovrebbero smetterla di considerare la remunerazione dei conti correnti bancari come una modalità di impiego del risparmio familiare. Per quella finalità esistono innumerevoli altri strumenti. Ecco perché motivare il prossimo inasprimento della tassazione del risparmio affermando che la riduzione dell’aliquota d’imposta sui conti correnti bancari rappresenta una sorta di “compensazione” di cui le famiglie potranno beneficiare, rappresenta una forma estrema di malafede mista ad ignoranza.

Dall’intera vicenda emerge, quindi: l’intervento dirigistico del governo che, per comprimere la forbice tra tassi attivi e passivi, ritiene più efficace non tanto creare condizioni di competizione tra banche, bensì fissare un sistema di veri e propri prezzi amministrati, nell’ennesima dimostrazione di liberalizzazione-patacca; la natura propagandistica di tale intervento, visto che le banche possono agevolmente aggirarlo; la robusta ignoranza discernitiva di associazioni di consumatori i cui dirigenti appaiono radicalmente inconsapevoli non solo della lettera della legge, ma anche dei più elementari princìpi di concorrenza e delle leggi economiche di domanda e offerta. Ma siamo ragionevolmente certi che queste petizioni e messe in mora susciteranno l’entusiasmo di qualche demagogico grillo parlante e del suo populismo di basso conio.

E andiamo avanti. Del resto, stiamo liberalizzando “per il bene del paese”, giusto?

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