Kissinger e l’Iran

Il titolare di questo blog ha avuto l’opportunità, anni addietro, di conoscere personalmente Henry Kissinger. Fu nel marzo 2002, nella splendida cornice del castello di Tor Crescenza, appena fuori Roma, durante una cena di gala offerta da una banca d’affari statunitense (quella stessa che anni prima espresse, nella persona di Bob Rubin, il Segretario al Tesoro dell’Amministrazione Clinton). All’epoca si parlava già di attacco all’Iraq: le ispezioni dell’Aiea erano ormai su un binario morto, Saddam sfidava quotidianamente l’Onu contando anche su una spregiudicata strategia mediatica volta a sfruttare le divisioni esistenti tra i governi occidentali. Durante quella cena, qualcuno chiese a Kissinger cosa pensasse dell’eventualità di un’invasione dell’Iraq. L’ex Segretario di Stato di Nixon analizzò minuziosamente lo scenario, soppesando pro e contro dell’azione militare. Poi concluse, col suo caratteristico vocione baritonale ed il persistente ed un po’ vezzoso accento tedesco: “Credo che il problema non sia se attaccare l’Iraq, bensì quando“.

Lo scorso gennaio, dopo la decisione di George W.Bush di inviare in Iraq altri 20.000 militari statunitensi, Kissinger scrisse un articolo per il Washington Post sulle motivazioni che, a suo giudizio, dovrebbero indurre gli Stati Uniti a non smobilitare dall’Iraq. Questo articolo viene oggi riproposto nel numero di aprile di Affari Esteri, trimestrale promosso dalla Farnesina, che ospita tra gli altri il contributo di una persona di cui sentiremo sempre più spesso parlare. Riportiamo alcuni passaggi del pensiero kissingeriano:

La guerra in Iraq è parte di un altro conflitto che interseca il confronto tra sciiti e sunniti: l’assalto all’ordine internazionale compiuto dai gruppi radicali di entrambe le sette islamiche. Stati dentro allo Stato, avvantaggiati dall’incapacità dei governi eletti di proteggere la popolazione, Hezbollah in Libano, l’esercito del Mahdi in Iraq e i gruppi di Al Qaeda in tutto il Medio Oriente, cercano, dal loro punto di vista, di riaffermare un’identità islamica sommersa dalle istituzioni e dai valori secolarizzati dell’Occidente. Ogni rafforzamento del radicalismo islamico minaccia gli stati tradizionali della regione, così come altri con consistenti popolazioni islamiche, dall’Indonesia attraverso l’India fino all’Europa occidentale. Il bersaglio più importante sono gli Stati Uniti, in quanto paese più potente dell’Occidente e attore indispensabile in qualsiasi tentativo di creare un nuovo ordine mondiale.

(…) Il disincanto del pubblico americano, gravato da un fardello che ha dovuto portare da solo per quasi quattro anni, ha generato la crescente domanda per un ritiro unilaterale, solitamente espressa con la richiesta al governo di Baghdad di una serie di standard da raggiungere in un certo periodo di tempo, pena il disimpegno americano. Ma nelle attuali condizioni un ritiro unilaterale non è un’opzione. Le forze americane sono indispensabili. Non sono in Iraq per fare un favore al suo governo né come ricompensa al suo comportamento. Sono invece un’espressione dell’interesse nazionale americano a impedire alla combinazione iraniana di ideologia fondamentalista e imperialista di dominare una regione dalle cui forniture di energia dipendono le democrazie industriali.

Un brusco ritiro americano complicherebbe notevolmente gli sforzi per impedire che l’ondata terroristica si propaghi oltre l’Iraq. I fragili governi dal Libano al Golfo sarebbero tentati di fare concessioni preventive. Ciò potrebbe portare il conflitto settario a un livello di genocidio superiore a quello che costrinse gli americani a intervenire nei Balcani. Un ritiro graduale non diminuirebbe i pericoli finché non verrà adottata una strategia diversa, in grado di mostrare alcuni progressi. Per adesso, verrebbe accolto, sia in Iraq che nella regione, come il precursore di un ritiro totale e tutte le fazioni si regolerebbero di conseguenza.

La decisione del Presidente Bush non dovrebbe essere discussa in termini di strategia del “mantenere la rotta”, posizione da lui stesso più volte recentemente rettificata. Piuttosto dovrebbe essere vista come il primo passo verso una nuova grande strategia che colleghi nell’intera regione forza e diplomazia, idealmente senza preferire alcuna fazione. Lo scopo della nuova strategia dovrebbe essere di dimostrare che gli Usa sono determinati a rimanere rilevanti negli sviluppi regionali; adeguando lo schieramento e il numero dei soldati americani alle realtà emergenti e stabilendo uno spazio di manovra per un decisivo sforzo diplomatico volto a stabilizzare la regione.

Qui il testo integrale originale dell’articolo di Kissinger. Come avrete potuto realizzare, Kissinger non parla di ritiro statunitense dall’Iraq né di appeasement verso le forze islamiste presenti nella regione, siano esse in forma statuale (come l’Iran) o di vere e proprie Ong (come al-Qaeda, Hezbollah e, in misura meno rilevante, Hamas). Parla invece di una confrontation che, come tale, rappresenta un mix di momenti dialettici con l’avversario frammisti ad iniziative volte ad indebolirlo strategicamente. Su tutto, l’obiettivo di preservare gli approvvigionamenti energetici delle democrazie industriali occidentali, ma anche la necessità di salvaguardare la credibilità internazionale degli Stati Uniti, oggi messa a dura prova dai gravi errori strategici fin qui compiuti nella regione mediorientale. Questa visione sottende dei valori, anche se a qualche anima candida una lettura superficiale suggerirà solo cinismo.

Speriamo quindi di aver contribuito, sia pure in minima parte, a sgombrare il campo dagli equivoci sul realismo alimentati dall’insipienza macchiettistica di alcuni neocon all’amatriciana che si aggirano per le vie della Città dei Liberi, che vorrebbero esportare la democrazia nel mondo con l’adesivo “Nuke ‘em all” in bella vista sul paraurti del pc, e fanno di slogan e “funzioni pedagogiche” la cifra della propria “sintesi”. Cari amici blogger, non smettete mai di studiare e di porvi domande. E soprattutto non limitatevi a leggere i titoli degli articoli ed i risvolti di copertina dei libri. Ciò che altrimenti rischiate di diventare non è propriamente uno spettacolo edificante.

NOTA A MARGINE: l’Iran non è un monolite. Il deterioramento delle condizioni di salute della Guida Suprema, ajatollah Khamenei, ha verosimilmente aperto una dura lotta per la successione. L’astuto e sempiterno Rafsanjani sta tessendo la propria tela, mentre Ahmadinejad appare come il frutto avvelenato e forse “terminale” di un regime prossimo alla bancarotta. Minato da un tasso di crescita demografica esplosivo (età mediana della popolazione stimata in soli 27 anni), che le autorità cercano disperatamente di contenere con la reintroduzione della pianificazione familiare. Misura apparentemente riuscita, ma che si scontra con una struttura economica del paese prossima al collasso: si stima che l’80 per cento del pil iraniano sia prodotto dall’industria statale, che include tutti i grandi manifatturieri. Un’industria peraltro quasi completamente basata sul petrolio, con forti ritardi nell’adeguamento e nell’innovazione tecnologica degli impianti estrattivi; una capacità di raffinazione drammaticamente insufficiente, che costringe il paese a pesanti importazioni di benzine e distillati. Un’inflazione galoppante, una devastante disoccupazione giovanile.

Ahmadinejad si è fatto eleggere conducendo una campagna elettorale basata sul controllo del disagio economico, attraverso una politica di erogazioni e sussidi finanziati anche dalla robusta rendita petrolifera, in modo non molto dissimile da quanto sta facendo Hugo Chavez in Venezuela (e non solo). Ma la struttura economica e sociale iraniana è molto più logora, e la stessa strategia di sviluppo della tecnologia nucleare sembra più un messaggio “alla nordcoreana”, indirizzato agli interlocutori internazionali per tentare di spezzare un isolamento che dal 1979 non si è mai realmente interrotto, neppure durante la presidenza del “riformista” Khatami. Paradossalmente (ma non troppo), l’inopinata possibilità offerta a Teheran di takeover sul sud sciita iracheno sta consentendo al regime iraniano di avere più tempo a propria disposizione, per tentare di sopravvivere al proprio avvitamento.

Su questa traiettoria, l’Iran è destinato ad implodere. Spetta alla diplomazia internazionale (Russia e Cina incluse) operare per evitare che questo crollo si estenda all’intera regione ed al pianeta. Spetta agli Stati Uniti tenere i nervi saldi e non lanciarsi in avventure dagli esiti potenzialmente catastrofici.

ADDENDUM: Kissinger scrive oggi sul Washington Post, di cui è editorialista, riguardo i rapporti Usa-Russia. Il raffreddamento, osservato in questi mesi, nelle relazioni tra gli Stati Uniti e la Russia, non è il preludio ad una nuova guerra fredda, perché “visto il numero di argomenti di interesse nazionale connessi tra di loro, nessuna delle due parti vuole o ha i mezzi per affrontare una nuova Guerra Fredda“. “il nuovo raffreddamento non è positivo per la prospettiva di un ordine internazionale pacifico e creativo”. Kissinger pensa che alcuni dei grandi problemi possono essere risolti soltanto attraverso una stretta cooperazione tra le due superpotenze nucleari, e cita tra l’altro “la minaccia dell’islam radicale, l’ambiente e i cambiamenti climatici. L’obiettivo di una politica statunitense sensata sarebbe di aumentare al massimo gli incentivi perché l’evoluzione della Russia diventi più compatibile con le norme democratiche”. Qui il testo originale dell’editoriale.

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