Secondo Romano Prodi, la crisi dei mutui subprime avrà impatto limitato sull’economia italiana, in quanto
“gli effetti derivanti dalle turbolenze indotte dalla crisi del mercato immobiliare americano, sono più contenuti. Il settore bancario nazionale ha applicato criteri prudenti per l’erogazione dei mutui e le famiglie italiane presentano un grado di indebitamento che, sebbene in crescita rimane ancora al di sotto della media dell’area euro”.
Si tratta di un’affermazione piuttosto superficiale: è certamente vero che il sistema creditizio nazionale adotta criteri di erogazione dei finanziamenti immobiliari improntati a cautela. Ma l’Italia non è e non sarà un’isola felice nel mare procelloso dei crediti in sofferenza.
E’ assai poco probabile che le banche italiane abbiano accettato autocertificazioni del reddito degli aspiranti mutuatari, come invece accaduto negli Stati Uniti, circostanza che ha favorito vere e proprie truffe, che i prestatori sono tuttavia stati ben felici di subire, vista la facilità di trasferimento del rischio di insolvenza. In Italia da relativamente poco tempo si sta diffondendo la pratica di mutui che coprono la totalità del prezzo di acquisto dell’immobile, e non appare presente l’utilizzo di ipoteche di secondo grado o di altre forme di finanziamento per coprire l’eventuale differenza tra mutuo erogato e controvalore della transazione immobiliare (il cosiddetto downpayment, nella terminologia anglosassone). Tutto ciò è funzionale a ridurre l’incidenza delle insolvenze.
In altri contesti, dove le banche sono disintermediate, cioè non hanno il monopolio nell’erogazione di alcuni tipi di finanziamenti, negli ultimi anni si è assistito per contro ad una vera e propria competizione per acquisire nuovi clienti, e tale competizione ha finito col porre in secondo piano le tecniche di controllo del rischio. Il tema della competizione tra prestatori non è limitato ai mutui, ma si estende anche al credito al consumo. E’ vero che in Italia questa forma di finanziamento ha minore incidenza, in valore assoluto, rispetto ad altri paesi, ma è altresì vero che i nostri tassi di crescita nella domanda di questi prestiti sono molto sostenuti, ed il processo di convergenza ed omologazione è in atto. La pressione competitiva tra intermediari finanziari ha progressivamente attenuato le pratiche di controllo del rischio, anche in Europa, e ciò è destinato a tradursi in un aumento delle insolvenze.
Ma anche ipotizzando che le banche italiane, oltre ad essere molto conservative nell’erogazione dei mutui, lo siano state altrettanto riguardo la propria finanza proprietaria, e non si trovino in portafoglio prodotti finanziari legati ai subprime o comunque strutturati (cosa di cui dubitiamo fortemente), l’ottimismo del premier italiano è mal riposto. Oggi la quasi totalità dei finanziamenti a tasso variabile sono indicizzati al tasso euribor a tre o a sei mesi, cioè al tasso a cui le banche si prestano denaro. Dall’inizio della crisi dei subprime, i tassi interbancari sono schizzati verso l’alto, per alcuni precisi motivi. In primo luogo, le banche sono diventate molto riluttanti a prestarsi denaro, temendo che la controparte prenditrice di tali fondi possa avere in portafoglio emissioni “tossico-nocive”. Il rialzo dei tassi interbancari si tradurrà in un aumento del costo da interessi per debitori a tasso variabile, siano essi privati che hanno stipulato un mutuo oppure aziende affidate. Si tratta di una forte stretta creditizia che ridurrà il reddito disponibile ed eserciterà effetti restrittivi su consumi ed investimenti, cioè sulla crescita.
E, trattandosi di una crisi creditizia, cioè di fiducia, anche l’eventuale taglio dei tassi d’interesse ufficiali da parte delle banche centrali, pur interessando direttamente l’interbancario, potrebbe non funzionare immediatamente. In definitiva, la cautela è d’obbligo, e se è vero che compito dei politici di governo è quello di trasmettere fiducia, è anche vero che la faciloneria non ha mai contribuito a risolvere i problemi, semmai a determinare risvegli più bruschi del dovuto.