In cosa imitare la Germania

di Mario Seminerio – LiberoMercato

Lo scorso marzo, la Germania ha approvato l’aumento dell’età di pensionamento da 65 a 67 anni. Con l’aumento della speranza di vita e sistemi pensionistici a ripartizione, non vi sono abbastanza lavoratori attivi per finanziare le pensioni delle generazioni anziane. Pertanto, la linea di demarcazione tra i due gruppi anagrafici verrà progressivamente spostata in avanti tra il 2012 ed il 2029. I sindacati hanno fatto campagna contro l’aumento dell’età pensionabile, accusando il governo di derubare i lavoratori e precipitare nella povertà i sessantenni non reimpiegabili, condannandoli ad attendere più a lungo l’assegno pensionistico. Tuttavia, il governo di Angela Merkel ha introdotto la possibilità di consentire ai lavoratori di andare in pensione anticipatamente, applicando una penalità in termini di minore rendimento della pensione per il resto della vita. Inoltre, la riforma delle pensioni ha previsto un programma di sussidi governativi, denominato “Iniziativa 50 Plus“, a favore dei datori di lavoro che assumono persone nella fascia d’età compresa tra 50 e 67 anni.

Il graduale aumento dell’età pensionabile significa che le persone nate nel 1947 (i primi baby boomers) dovranno attendere fino al compimento dei 65 anni ed 1 mese per poter andare in pensione a rendimento massimo. L’innalzamento progressivo dell’età determinerà che i nati nel 1964 dovranno attendere il compimento dei 67 anni per aver diritto a tutta la pensione pubblica.

Sempre in marzo il governo tedesco ha licenziato il disegno di legge di riforma della tassazione sulle imprese, che punta a ridurre la pressione fiscale complessiva sulle aziende (oggi tra le più alte del mondo industrializzato) dall’attuale 38,7 per cento al 29,8 per cento. La riforma, che dovrebbe entrare in vigore dal prossimo anno, sarà in parte finanziata con la chiusura di alcuni loopholes fiscali e con l’introduzione di una tassa sui capital gains dal gennaio 2009, ha come obiettivo quello di rendere la Germania più attraente per l’investimento diretto estero, e nei primi tre anni di applicazione dovrebbe determinare una riduzione del gettito di 6,5 miliardi di euro. Come detto, sarà finanziata con la riduzione al minimo dell'”arbitraggio fiscale”, che oggi consente alle imprese tedesche di trasferire i propri profitti all’estero e contabilizzare perdite in Germania, per sfruttare i più convenienti regimi fiscali esteri. Si stima che, attraverso questa forma di elusione, circa 100 miliardi di euro riescano ogni anno a sottrarsi all’imposizione tedesca. L’altra misura di finanziamento prevede, come detto, l’introduzione di una cedolare secca del 25 per cento su capital gains, interessi e dividendi da gennaio 2009. Prima che qualche ossimorico liberista di sinistra delle nostre latitudini trovi in questa misura la conferma della bontà dell’invocato aumento di tassazione sul risparmio (marxianamente definito “rendita finanziaria”), giova precisare che l’attuale normativa tedesca prevede la tassazione dei redditi da capitale ad aliquota marginale Irpef, cioè il loro inserimento nella dichiarazione dei redditi.

Si discute molto, in questi mesi, sul “miracolo” economico tedesco, che ha rilanciato competitività e crescita di un paese che per tre anni consecutivi ha sforato la fatidica soglia di Maastricht del 3 per cento di rapporto tra deficit e pil, e che nel 2007 conseguirà un piccolo ma significativo surplus di bilancio. Ovviamente, non esistono relazioni meccanicistiche tra riforme e crescita economica. Secondo alcuni analisti, anche le leggi Hartz di riforma del mercato del lavoro tedesco, così simili nell’impianto alla nostra legge Biagi, avrebbero contribuito alla “liberazione della crescita” tedesca, per usare la suggestiva immagine sarkoziana. Di certo, sul vigore della ripresa tedesca hanno inciso sia la specializzazione in beni ad elevato valore aggiunto (soprattutto, ma non esclusivamente, macchinari), che hanno beneficiato della forte domanda estera (soprattutto asiatica), sia i tagli alle retribuzioni nominali forzati dalle delocalizzazioni all’Est. Ciò che è sorprendente, almeno in Italia, è il fatto che in molti laender si sono verificati tagli delle retribuzioni nominali anche per un settore protetto quale la pubblica amministrazione, e anche questo ha contribuito al riequilibrio complessivo della finanza pubblica.

In un periodo in cui i nostri politici discettano garruli di sistema elettorale tedesco, sarebbe invece auspicabile applicare il nostro provincialismo imitativo alla politica economica tedesca. Invece, siamo stati impegnati in lunghi mesi di discussioni solo per arrivare a ripristinare “quota 95”, mentre abbiamo di fatto mandato in malora il sistema contributivo rinviando per l’ennesima volta la revisione dei coefficienti di trasformazione dei montanti contributivi. Dal versante della fiscalità d’impresa, da noi si comincia solo ora ad ipotizzare la compensazione tra tagli ai sussidi alle imprese e riduzioni delle aliquote, l’embrione di quella semplificazione fiscale che rappresenta condizione necessaria ma non sufficiente per attrarre capitali esteri e sviluppare la competitività internazionale delle imprese italiane.

Ma forse, tra Italia e Germania si tratta soprattutto di differenze culturali, a ogni livello: dal modello di relazioni industriali tedesco, partecipato e partecipativo, contrapposto alla satrapia finto-conflittuale e autenticamente oligarchica dei sindacati italiani; per finire al socialdemocratico Gerhard Schroeder, che rifiuta di allearsi col Linkspartei dei parolai rossi teutonici Gysi e Lafontaine, contrapposto alla grande ammucchiata prodiana, quella che mette nello stesse presepe Carlo Giuliani e Rudy Giuliani. Che volete farci, noi italiani abbiamo una grande tradizione nella commedia dell’arte, e la rinverdiamo quotidianamente. In questo i tedeschi non hanno alcuna possibilità di imitarci.

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