Il nuovismo veltroniano sembra essersi decisamente impossessato anche delle vecchie mummie della nomenklatura post-comunista diessina. Questa mattina, intervenendo a Radioanchio, Massimo D’Alema ha infatti deciso di tirar fuori dal guardaroba della storia tutto lo strumentario dialettico della Scuola delle Frattocchie. Oggi Spezzaferro ha quindi ribadito la presunta obsolescenza di Berlusconi, definendone l’eventuale ritorno “un fatto di archeologia politica”:
“Ho parlato di archeologia politica perché Berlusconi è legato ad una stagione politica che è quella di Bush, dell’intervento unilaterale in Iraq. Oggi il mondo sta voltando pagina, si sta orientando verso una politica multilaterale e il ritorno al governo di chi è stato uno dei protagonisti di quella stagione è un fatto di archeologia politica.”
Non male detto dall’uomo che, già all’età di nove anni, mangiava pane e comunismo, scrivendosi personalmente i discorsetti da “pioniere” della sezione del Pci di Monteverde Vecchio, a Roma, coccolato da Palmiro Togliatti; che all’età di 14 anni era iscritto alla Fgci, da cui scalò diligentemente tutto il cursus honorum del perfetto comunista: inclusa la scampagnata a Cuba, una trentina di anni fa, alla testa di una nutrita delegazione di giovani comunisti all’undicesimo festival mondiale della gioventù e degli studenti, promosso dal dittatore cubano, che proprio ieri ha annunciato il proprio ritiro (dopo un solo mandato, ha chiosato qualcuno).
D’Alema ha sempre “studiato da segretario”: nel 1984 fu portato da Enrico Berlinguer a Mosca, ai funerali di Jurij Andropov, in quella che a molti apparve come l’investitura ufficiale alla successione al vertice del Pci. Ascesa interrotta dalla improvvisa morte di Berlinguer, che portò alla segreteria di transizione di Alessandro Natta.
La carriera politica di D’Alema è tra le più longeve ed attivamente revisioniste della storia italiana. Primo presidente del Consiglio ex-comunista, i suoi due governicchi sono durati dal 21 ottobre 1998 al 25 aprile 2000, l”era di mezzo” tra il governo Prodi, poi defenestrato da Rifondazione, ed il governo Amato di fine legislatura. Anche in politica estera D’Alema è stato un profondo innovatore, figurando tra gli esponenti di quel leggendario “Ulivo mondiale” che decise di bombardare la Serbia per liberare il Kosovo. E proprio su questo argomento, tornato d’attualità dopo la dichiarazione di indipendenza del piccolo stato-fallito balcanico, D’Alema ha trovato modo di criticare la coalizione di centrodestra:
“Sul Kosovo c’è un punto di diversità rilevante tra il Partito della Libertà e la Lega Nord. E’ un punto essenziale di politica estera su cui già si scontrano”
E pazienza che il governo D’Alema abbia ottenuto il voto parlamentare per le operazioni Nato sulla Serbia con la classica risoluzione ambigua della sinistra (un impiego dei militari italiani circoscritto a fantasiose “attività di difesa del territorio nazionale”, temendo forse un’invasione serba dell’Abruzzo o delle Marche), e che anni dopo partorirà l’impegno in Afghanistan ma senza partecipare a operazioni di guerra, per non irritare la sinistra radicale. Ricordi sbiaditi, vestigia del passato della diplomazia italiana: stiamo pur sempre parlando di archeologia politica, in effetti.
Ma D’Alema rappresenta tradizionalmente anche una forma di nuovo assai pericolosa per i suoi compagni di partito e d’avventure: citofonare Romano Prodi per i dettagli. Anche oggi, l’ex presidente diessino non ha perso l’occasione per recriminare sulla mancata adozione del sistema elettorale tedesco, che sarebbe stato funzionale alla sua visione strategica di un Pd egemone su un centro cattolico moderato.
Veltroni è avvisato, cerchi di non perdere le elezioni. Altrimenti, non essendo più disponibile il refugium peccatorum del Campidoglio (verosimilmente rioccupato dall’altro esponente nuovista Rutelli), l'”opzione africana” potrebbe tornare di stretta attualità. E sarebbe anch’essa nuova, immaginiamo.