Il wilsonismo, da Wilson in poi, è l’anima dell’America in politica estera (con la solita eccezione di Richard Nixon). Lo stesso Nixon amava definirsi wilsoniano, anche se nei fatti non lo era affatto. Questo la dice lunga sul radicamento di questo principio nella politica estera americana: qualsiasi approccio americano è partito dagli assunti wilsoniani. Anche le cose meno wilsoniane che gli Usa hanno posto in essere sono state giustificate con argomentazioni wilsoniane al mondo e alla loro opinione pubblica (anche sotto Nixon, ovviamente, per motivi di consenso interno ed esterno).
Il wilsonismo è internazionalista, moralista (nel senso che antepone la morale all’interesse), in origine legalista (la Società delle Nazioni, l’Onu, ecc.). I neocon hanno depurato il wilsonismo dei suoi elementi legalisti, perché a loro dire imbrigliavano la potenza militare Usa. E li hanno rimpiazzati, appunto, con la fiducia cieca nella superiorità militare in quanto tale per risultare egemoni (da qui l’iper-realismo di cui dicevamo).
Quest’ultimo aspetto è, analiticamente parlando, estremamente superficiale. Molto più del wilsonismo in sé, perché sottovaluta quello che Kissinger chiama “equilibrio etico”, ossia il reciproco riconoscimento di valori, culture, storie, interessi, che è alla base della stabilità del sistema. Non è un caso che questo sia il punto sul quale Kissinger li ha bastonati di più. Partendo dalla consapevolezza che l’argomento wilsoniano, invece, è sostanzialmente impossibile da sconfiggere in America, perché intimamente connesso all’identità politico-culturale degli Stati Uniti e al loro successo nel mondo quando hanno abbandonato il tradizionale isolazionismo delle origini.
Nel Secondo Dopoguerra si succedettero due strategie statunitensi di lungo periodo nella gestione del rapporto con l’Unione Sovietica. Il containment consistette in una strategia difensiva caratterizzata da una serie di punti fermi che George Kennan, il diplomatico americano che la concepì nel 1946, individuò nell’assenza di dialogo con Mosca, nella fermezza dei valori americani di libertà, nel sostegno economico e politico verso gli Stati minacciati dal comunismo e nella costruzione di una rete di alleanze di portata globale in funzione antisovietica. Nel concreto questa avrebbe dovuto funzionare come un perimetro globale permanente della sfera di influenza sovietica. Non la si negava in quanto tale, ma ci si impegnava a frenare l’emorragia in chiave difensiva, a “contenere” appunto possibili espansioni future.
Le prescrizioni di Kennan, in realtà, saranno ben presto superate nei fatti e rimodulate in chiave più consona alla natura wilsoniana dell’America. Già dai primi anni Cinquanta, con il “roll-back” di Dulles, si cominciò ad interpretare il containment in termini di crociata (in questo senso, il primo e fondamentale documento di foreign policy che tenderà fortemente all’ideologizzazione del nascente confronto con l’Urss sarà l’Nsc-68, elaborato, tra gli altri, da Paul Nitze). Occorreva quindi “liberare” l’Europa centro-orientale e ogni altro popolo minacciato o aggredito dal moloch sovietico. Era questo il miglior esempio di contenimento, non già il semplice attendere indefinitamente che le contraddizioni interne al sistema sovietico facessero implodere il blocco comunista (come invece sostenne profeticamente Kennan per tutta la vita). E’ interessante notare che uno degli antesignani del movimento neocon, l’intellettuale conservatore ed ex trozkysta James Burnham, aderì entusiasticamente alla tesi del “roll-back”.
Questo mix di messianismo, aggressività, fiducia nell’illimitatezza delle risorse americane (in tal senso si parla di “keynesismo militare”), approccio ideologico piuttosto che geopolitico al confronto con Mosca col tempo diventerà caratteristica programmatica dei Dems (e dell’ala destra del GOP). Prenderà il nome di Cold War Liberalism. E terminerà, nei fatti, con l’avvento del kissingerismo, che si fonda su premesse quasi identiche a quelle di Kennan e un metodo opposto a quello del Cold War Liberalism. Questo approccio si sviluppa sino a Lyndon Johnson. La guerra in Vietnam è il punto in cui il keynesismo militare del Cold War Liberalism tocca il punto massimo.
In questa fase, i neocon sono trotzkysti nel movimento New Left. E’ il 1967-68. Parlano confusamente di “uomo nuovo”, “fine della politica”, “ritorno alla morale”, “rivoluzione permanente”, ecc., sempre in contrapposizione al pragmatismo “amorale” di Kissinger. E riconoscono nell’internazionalismo wilsoniano la via per implementare queste fantasticherie, soprattutto dopo la cocente delusione del fallimento della Great Society di Johnson, uno degli esperimenti più statalisti della storia americana e in cui pure avevano creduto fortemente.
Quando vince Nixon, Kissinger capovolge le premesse metodologiche di foreign policy: dall’illimitatezza delle risorse americane si passa alla politica dei limiti reciproci. In pratica: io riconosco il tuo campo di azione se tu riconosci il mio campo di azione. A ciò non è estranea la considerazione del peso eccessivo dello Stato nella vita economica (cara alla base repubblicana) e dei fallimenti empirici che il Vietnam rivelava a proposito delle esagerazioni del Cold War Liberalism. Nasce la strategia del “linkage” tra le due superpotenze.
Riconoscendo reciprocamente l’egemonia altrui, le due superpotenze si accordano con i trattati di limitazione di armamenti (Salt I e II), cosa inconcepibile ai tempi del Cold War Liberalism e infatti vissuta come un tradimento dai repubblicani duri e puri. Sebbene Kissinger entrasse proprio in quel periodo nell’Olimpo dei grandi della storia con l’apertura a sorpresa alla Cina e la diplomazia tripolare. In pratica, aveva attratto Mosca col disgelo ma l’aveva intrappolata definitivamente mediante le contraddizioni interne al suo blocco, indebolendola geopoliticamente molto più di corse agli armamenti, minacce o guerre alla periferia del globo.
Per quella pattuglia di Democratici che solo più tardi finirà per raccogliersi intorno a Ronald Reagan nel nome di un nuovo conservatorismo, la limitazione degli armamenti e la conseguente parità strategica che Kissinger perseguì e ottenne parzialmente con Mosca costituivano un tradimento politico; la fattiva collaborazione commerciale e creditizia e l’intesa politica incentrata su un reciproco riconoscimento delle sfere di influenza in Europa – che si tramutava, nella concezione culturalmente eurocentrica di Kissinger, in una interdipendenza strategica dalla portata comunque universale – rappresentavano una “nuova Monaco”, una forma aggiornata di appeasement, un tradimento morale per la nazione americana.
Quando Nixon cadde, questi trovarono consensi nella sinistra dei Democratici con temi tipicamente wilsoniani (dei quali l’allora senatore democratico Henry Jackson era l’alfiere). E demolirono il consenso dell’opinione pubblica, sin lì notevole, che i risultati della détente avevano garantito a Kissinger.
In questo saranno aiutati dai repubblicani più ideologici – diciamo la destra del GOP – che chiederanno a gran voce il ritorno ai metodi militaristi del Cold War Liberalism, asserendo che l’aver legittimato l’esistenza stessa dell’Urss a livello internazionale aveva costituito il peggiore attentato morale all’America.
Le obiezioni neocon alla ricetta realista sono profondamente legate all’identità politica statunitense: l’eccezionalismo di un tempo, rimasticato in chiave nazionalista ed interventista, così come questo ensemble si è andato forgiando nei lunghi anni di Guerra Fredda. In fondo, il rifiuto dell’interpretazione geopolitica delle dinamiche di politica estera e il connesso rigetto di una relativizzazione delle politiche su scala regionale (”valori universali, politiche particolari” è uno dei massimi insegnamenti di Kissinger) si fonda sull’archetipo etico delle risorse inesauribili dell’America, sull’identità tra interessi americani e interessi dell’umanità, sull’universalità dei valori che permea le relative politiche, da cui deriva l’accostamento del movimento in esame al filone idealista delle relazioni internazionali. Per il neocon è l’ideale che fa la politica, in un continuum che non ammette adattamenti al contingente o al ragionamento tattico.
Al contrario, per un realista – ma sarebbe più corretto dire per il realismo kissingeriano, considerata la genesi anti-kissingeriana del gruppuscolo neocon – l’impostazione neoconservatrice è semplicemente ingenua perché mentre mira ad imporre con la forza la stabilità al sistema, nel farlo finisce per destabilizzarlo; mentre parte dall’assunto della propria legittimità morale, agendo incontra inevitabilmente momenti di ambiguità, finendo così per eroderla; mentre auspica un ordine nuovo, attivandosi senza il consenso altrui crea disordine perenne. Mira al conservatorismo, insomma, ma è per definizione rivoluzionaria e quindi destinata a risultare inefficace.
I neocon appoggiarono Jimmy Carter con la “politica dei diritti umani”, ma subirono un clamoroso fiasco. Ronald Reagan, passato dai Dems ai Reps, finì infine per fungere da trait d’union. E’ sotto Reagan, quindi, che la logica wilsoniana e quella militarista si uniscono e generano i neocon come li conosciamo oggi, finanche nominalmente.