Ben consapevoli che i programmi sono fatti per essere disattesi, tentiamo di analizzare il manifesto economico dei due maggiori partiti, iniziando da quello del Partito democratico. Dal versante della spesa, rileviamo l’abituale mantra a “riduzione e riqualificazione”, senza intaccare, ma anzi facendo crescere nel tempo la quota di spesa sociale sul Pil (ça va sans dire). Negli intendimenti del Pd la riduzione della spesa (assieme all’aumento di entrate derivante dalla chimerica lotta all’evasione) sarà strumentale alla riduzione della pressione fiscale su imprese e famiglie. Le indicazioni su come conseguire questa riduzione (mezzo punto nel primo anno, un punto nel secondo e nel terzo) restano largamente indeterminate o al più si richiamano a generiche attività di “alta amministrazione”, come l’introduzione di benchmark contro i quali confrontare le performances dei singoli uffici. Molto suggestivo, ma è lecito nutrire dubbi su dove possa posizionarsi questa asticella di prestazioni nell’ipotesi in cui si cerchi la concertazione con i sindacati. Presente anche l’abituale giaculatoria sui dirigenti “responsabilizzati”, e corrispondente remunerazione “robustamente condizionata” al raggiungimento di predeterminati risultati. Questo significa che i dirigenti (che continueranno ad essere scelti per concorso pubblico, s’intende) saranno anche liberi di scegliere i propri collaboratori, eventualmente liberandosi di quelli ritenuti inidonei al ruolo? Chi può dirlo.
Altra minestra riscaldata è il blocco del turnover, qui indicato al 50 per cento. La misura notoriamente da sempre più derogata e derogabile nella storia di un paese fondato sulla deroga. Più criptico è il riferimento all’abolizione dello spoils system: significa in soldoni riaffermare che i ministri passano e i direttori generali di ministero restano. Immaginiamo che tale inamovibilità non sia esattamente un incentivo alla produttività, a meno di perseguire tenacemente l’obiettivo di benchmarking dei dirigenti, di cui sopra. Ma, ancora una volta: come valutare un dirigente privo di controllo sulle leve strategiche di produttività ed organizzazione del proprio ufficio? Lievi contraddizioni che non scalfiranno, immaginiamo, l’entusiasmo dei nuovisti veltroniani. Altro evergreen è la centralizzazione degli acquisti di beni e servizi, mentre è lecito nutrire maggiori speranze dall’estensione ed intensificazione dell’informatizzazione della Pubblica Amministrazione centrale e periferica, di cui si iniziano già a percepire alcuni effetti nella quotidianità. L’ipotesi di eliminazione delle Province laddove sorgeranno le città metropolitane la sentiamo dall’infanzia, chissà che prima o poi non si avveri. L’accorpamento e razionalizzazione degli enti locali si scontrerà fatalmente con la preservazione delle poltrone nei consigli comunali e nelle municipalizzate. Ma non temete, il programma del Pd ha già previsto che le fusioni saranno rese più palatabili “salvaguardando le specifiche identità politico-culturali”. Avremo cortei di carnevale differenziati all’interno dello stesso macro-comune?
Ricordate quando Tremonti voleva abbattere lo stock di debito privatizzando spiagge e litorali? Dopo le manifestazioni di sdegno, i “bella ciao” ed i girotondi intorno agli ombrelloni con secchielli e palette, sembra che l’idea sia stata alfine metabolizzata ed accettata anche a sinistra (sinistra?), ma solo dopo essere passata al vaglio di un’interessante ridefinizione del perimetro dei “beni demaniali”. Che scopriamo essere oggi, in Italia, “multipli di quelli che troviamo altrove”. Tu pensa, che Tremonti avesse ragione? Non lo sapremo mai, ma dobbiamo strologare su un convoluto periodare per capire che si, occorre vendere caserme dismesse e litorali, sia per abbattere lo stock di debito che per ridurre gli oneri di gestione corrente di un patrimonio evidentemente infruttifero, ma non lo si può dire esplicitamente:
Ridefiniamo le norme civilistiche per restringere in maniera europea la nozione di demanio pubblico e offriamo una tutela puntuale, ma flessibile, alla componente di patrimonio pubblico che smetterebbe di essere demaniale. Ne seguirebbe una diversa fruizione di quel patrimonio. Questa azione è indispensabile premessa di un’iniziativa volta alla valorizzazione della quota “non demaniale” del patrimonio pubblico, sia per ridurre il deficit annuale (la gestione dei beni immobili è oggi una voce di costo per il bilancio pubblico), sia per ridurre più rapidamente e più massicciamente il volume globale del debito pubblico.
Il capitolo sul fisco prevede un aumento della detrazione Irpef a favore dei lavoratori dipendenti, che potrebbe essere utilizzata come nuova base per l’imposta negativa sul reddito, prevedendo la piena rimborsabilità del credito d’imposta con un assegno spedito al domicilio dei contribuenti incapienti. Una strada da percorrere, anche se la discriminazione a favore dei lavoratori dipendenti dovrebbe essere superata, rendendo la misura realmente universalistica. La ridefinita detrazione Irpef verrebbe poi utilizzata, negli intendimenti di Morando & compagni, per compensare ogni anno il fiscal drag. A dire il vero, non ci sarebbe bisogno di allestire strutture fiscali così barocche se solo venisse deciso per legge di indicizzare ogni anno, in via automatica, gli scaglioni d’imposta all’inflazione. Ma, come noto, i politici odiano le regole ed amano le discrezionalità. Decisamente interessante, anche dal punto di vista freudiano, il fatto che il programma sembri legare esplicitamente le riduzioni di pressione fiscale al recupero di evasione più che alla riduzione della spesa. A questo riguardo, la premessa metodologica sembra essere una spericolata stima del rapporto tra crescita del pil ed aumento delle entrate. Non sappiamo se e quali stime (anche econometriche) siano alla base di tale quantificazione, e non siamo quindi in grado di dire se siamo di fronte ad un modello robusto o ad una forma di voodoo fiscal policy. Certo, il confronto con i valori di tale rapporto nel periodo 2000-2005 richiederebbe almeno di indagare come sono cresciuti negli ultimi due anni il gettito Iva (anche relativamente all’andamento dell’inflazione) e la redditività delle imprese (per il gettito Ires). Abbiamo il sospetto che nell’ultimo anno e mezzo il valore numerico di tale rapporto sia stato drogato proprio da queste due componenti, e non dal recupero di evasione e/o da maggiore compliance fiscale dei contribuenti. E’ comunque confortante che il programma affermi solennemente il principio della irretroattività delle nuove disposizioni fiscali, anche riguardo gli studi di settore: dopo la barbarie di Visco e Prodi, sarebbe un passo avanti verso la civiltà fiscale. Il meccanismo del credito d’imposta rimborsabile verrebbe poi esteso anche alle donne che lavorano, a partire da quelle del Sud. Tenendo in considerazione l’obiettivo strategico di aumentare la partecipazione femminile al mercato del lavoro, questa misura appare preferibile alla macchinosità del quoziente familiare.
Anche il Pd sembra poi avere acquisito il principio di detassazione del reddito da contrattazione di secondo livello. Ma occorre andare oltre, e ridefinire l’intero impianto della contrattazione collettiva, aumentando il peso di quella territoriale, settoriale ed aziendale. La domanda sorge spontanea: lo permetterà la Cgil?
Tra le altre misure, viene richiamata l’idea di costituire una Dote fiscale per i figli a carico, tale da sostituire gli attuali Assegni familiari e le detrazioni Irpef, da estendere in modo universalistico anche ai lavoratori autonomi, a differenza della sopracitata detrazione Irpef rimborsabile. Anche la Dote è destinata ad essere fully refundable, ed entrare nella costruzione dell’imposta negativa sul reddito. Un’impostazione complessivamente apprezzabile per la sua apparente sistematicità. Giudizio positivo anche per la detraibilità di una quota fissa dell’affitto pagato dai locatari e per la cedolare secca sul reddito percepito dal locatore. Si tratta della ripresa di una misura già tentata dal governo Prodi, ma inattuata per i veti della sinistra radicale.
Il programma pensa anche all’irrobustimento patrimoniale delle imprese, ormai imprescindibile per reggere la competizione internazionale oltre che per aumentare l’investimento in ricerca e sviluppare la produttività. Per ottenere ciò sono previsti forti sconti di imposta (fino all’azzeramento di Ires ed Irap per un certo numero di anni) per la quota di profitti corrispondente alla quota di capitale dell’impresa detenuto da fondi di private equity. Allo stesso fine si deve abbattere l’imposta sostitutiva per i disavanzi da fusione. Mossa interessante e condivisibile.
Il programma diventa molto più generico trattando del federalismo fiscale ed infrastrutturale, pur ribadendo il principio della compartecipazione al gettito dei grandi tributi erariali ed al coordinamento della finanza pubblica ai differenti livelli in cui si esplica, da attuarsi attraverso la cessione di funzioni di governo al futuribile “Senato delle Autonomie” .
Ancora riguardo il welfare, nulla da aggiungere a quanto detto riguardo il “compenso” minimo per i precari: una misura inattuabile e nociva, figlia verosimilmente di uno scivolone demagogico-populista. Proposta peraltro già ammorbidita subordinandola a negoziati tripartiti (Stato e parti sociali), ove non vedrebbe mai la luce nella formulazione e, soprattutto, nell’entità attuale. Il precariato si combatte riequilibrando i livelli di protezione tra insider ed outsider del mercato del lavoro, non con improbabili salari minimi. Il professor Ichino potrebbe essere utile in merito, ma temiamo che finirà con l’essere utilizzato come soprammobile.
In sintesi, restano tutti i dubbi e le indeterminatezze sull’azione di contenimento della spesa pubblica. Avrà anche avuto ragione Enrico Morando quando, rispondendo alla domanda di una giornalista, ha detto che “questo è un programma e non una Finanziaria”. Ma se non si aggredisce la spesa tutte le proposte potenzialmente condivisibili, quali la creazione di un’imposta negativa sul reddito, sarebbero solo altrettanti capitoli dell’abituale libro dei sogni. Che diventano incubi quando le tasse si trovano costrette ad inseguire l’inesorabile espansione di spesa.
P.S.: Alcuni lettori de Il Legno Storto ci segnalano (dati alla mano) che, riguardo il pubblico impiego, uno dei principali nodi è quello dell’elevato rapporto tra dirigenti e sottoposti, oltre che degli automatismi della carriera direttiva. Un argomento in più da sottoporre a Veltroni (e a Berlusconi, beninteso) per la riqualificazione della P.A. come strumento agevolatore della crescita economica del paese.