Del programma economico del Pd delineato ieri da Walter Veltroni a Porta a porta, un punto ci pare degno di analisi. Veltroni ha detto:
“Proporremo un compenso minimo legale che, per esempio per un contratto atipico, non potrà essere meno di 1.000-1.100 euro e daremo incentivi fiscali alle imprese per contratti a lungo termine. Alla domanda di Vespa se il resto dei soldi li metterà lo Stato per aiutare le imprese, il segretario del Pd risponde: “No, utilizzeremo la leva degli incentivi fiscali per i contratti a lungo termine”.
Pare di capire che Veltroni voglia introdurre un “incentivo” alle imprese che assumono a tempo indeterminato (tenderemmo ad interpretare così l’espressione “contratti a lungo termine”), e contemporaneamente introdurre un salario minimo legale per il tempo determinato. Se abbiamo correttamente tradotto dal veltronese, si tratterebbe null’altro che di un’idea balzana. In primo luogo, i contratti “atipici” nascono e servono per fornire la flessibilità necessaria ad un sistema “two tiered“, diviso tra insiders ultragarantiti ed outsiders mazziati.
Basterebbe ribilanciare l’area delle tutele dai primi ai secondi (level playing field, lo chiamano plasticamente gli americani) per ridurre drasticamente il numero di cosiddetti “precari”. Ma la progressione delle retribuzioni reali, come abbiamo più volte richiamato, è funzione della crescita della produttività, non di illusorie manovre fiscali redistributive. Il salario minimo garantito finirebbe, se posto su livelli superiori a quello di equilibrio di mercato, col generare disoccupazione ed incrementare il sommerso, accentuando ulteriormente il dualismo del mercato del lavoro. Inoltre, se i mercati del lavoro fossero flessibili, permettendo ai salari di scendere per eccesso di offerta di lavoro non qualificato, la piena occupazione verrebbe mantenuta. Come abbiamo scritto, un nuovo welfare dovrebbe quindi essere basato su integrazioni salariali piuttosto che su salari minimi. Tutti dovrebbero lavorare, a qualsiasi salario di mercato sia possibile trovare occupazione, ed il governo dovrebbe quindi pagare integrazioni salariali “a valle” del rapporto di lavoro (per assicurare standard di vita socialmente accettabili) e non “a monte” del medesimo, con l’imposizione di salari minimi. Utilizzare incentivi fiscali a favore delle imprese per “mirare” ad un determinato livello di salario minimo vuol dire distorcere il mercato del lavoro, frenando lo sviluppo della produttività. Se confermata nei termini da noi intesi, si tratterebbe dell’ennesima ruminazione di interventismo economico che spreca risorse fiscali. Ovviamente senza indicare la copertura di tali “tax expenditures“, a meno di credere ancora alla fola della penisola del tesoretto.
Il resto delle proposte è zucchero filato: imponenti a colpo d’occhio, incorporee quando assaggiate. Ci sono le abituali proposte pro-nataliste, con lo spostamento del finanziamento degli asili-nido (abituale canzoncina elettorale) a carico della fiscalità generale, e detrazioni fiscali di 2500 euro per figlio non una tantum ma annue e sino al compimento di una data età, indicativamente posta a 10-12 anni. Sembrano programmi di welfare di un paese che perde le notti chiedendosi come spendere il proprio enorme surplus di bilancio. La domanda sorge spontanea: saremo mica un popolo di fessi?