Mangiare i due classici spaghetti al pomodoro al ristorante è ormai diventato ”un lusso, come gustare un piatto di alta cucina”. Questa surreale denuncia è dell’Associazione diritti utenti e consumatori (Aduc), che segnala un aumento del 3500 per cento del costo del piatto al ristorante rispetto alla preparazione in casa. Questa presa di posizione dell’Aduc è la prova provata che non solo l’Italia sta colando a picco sotto il peso del proprio analfabetismo economico, ma anche (per restare nell’ambito culinario) che la maionese tricolore è definitivamente impazzita, oltre che irrancidita. I ristoranti costano “troppo”? E quindi? La ristorazione è un servizio: compra chi vuole, e non risulta che rappresenti un caso di fallimento del mercato, se del caso da regolamentare con un sistema di tariffe amministrate, perché i servizi delle imprese della ristorazione non rappresentano “beni pubblici“.
Per l’Aduc quello che viene praticato nei ristoranti italiani è un vero e proprio ”salasso”, che peraltro avrebbe già avuto come conseguenza un crollo della clientela nei ristoranti romani (meno 30 per cento solo nel giugno scorso). Evviva, l’Aduc ha scoperto le curve di domanda e offerta! Prezzi in rialzo? Domanda in calo. Elasticità della domanda al prezzo maggiore dell’unità? Riduzione del giro d’affari dei ristoranti più che proporzionale al rincaro di prezzo. Riduzione di fatturato e redditività del settore della ristorazione? Espulsione delle imprese marginali dal business, e ritorno all’equilibrio, distinto per segmenti di domanda e offerta. Ma di che stiamo parlando?
”Un piatto di pasta da 100 grammi – spiega l’associazione – costa mediamente 0,25 euro, contro i 9 euro in media del ristorante”. Un aumento del 3500 per cento, definito dall’associazione ”eccessivo”, e non giustificato dalle spese sostenute dai ristoratori. E quindi? Se il ristoratore decidesse di far pagare un piatto di pasta quaranta euro, è affare dell’Aduc? No, è affare di chi ritiene che a quel prezzo la domanda del consumatore sia soddisfatta, per i più disparati motivi, anche psicologici. E soprattutto, i compagni dell’Aduc dovrebbero preoccuparsi di capire se c’è competizione tra ristoratori, e in caso di risposta negativa dovrebbero spingere per ottenerla. Ma no, in un rigurgito di socialismo l’Aduc chiede agli esercenti di abbassare i prezzi, ”visto che da 15 anni il reddito reale medio non è cresciuto, mentre i menù nei ristoranti sono lievitati smisuratamente e furbescamente dall’entrata in vigore dell’euro.”
“I ristoratori – si conclude l’appello dei compagni dell’Aduc – devono adeguare i prezzi alla mutata realtà economica del Paese”. Ma ancora una volta: se “il reddito reale medio non è cresciuto”, perché le imprese operanti nel settore della ristorazione sono cresciute di numero? Perché gli italiani sono una manica di coglioni o perché l’offerta è segmentata sulla domanda e quindi il mercato nella sua totalità è in equilibrio?
Peraltro, non è chiaro a cosa miri questa presa di posizione dell’Aduc: è una richiesta al governo per imporre tariffe fisse “popolari” nei ristoranti? E in tal caso, come gestire il fatto che i costi dei fattori produttivi della ristorazione (materie prime, costi del personale, affitti, utenze) crescerebbero ben oltre il fatturato del ristoratore? Si finirebbe con sussidi a sostegno del reddito di quest’ultimo, ed in tal modo nessun ristoratore marginale sarebbe più spinto fuori mercato? Mistero. L’unica certezza è che con simili forme di analfabetismo economico non ci si deve meravigliare di avere premier che propongono “prezzi massimi concordati per il prezzo del petrolio” e ministri dell’Economia che inventano la Robin Hood Tax.