di Luigi Oliveri
Egregio Titolare,
il sempre difficilissimo rapporto con la concorrenza dell’ordinamento giuridico italiano e delle maggioranze di volta in volta insediate è confermato dal nuovo codice dei contratti, d.lgs 36/2023.
Sull’estensione a dismisura degli affidamenti diretti, dunque senza gara, nel sottosoglia, s’è già detto e scritto molto.
Come è noto, il nuovo codice di fatto rende ordinaria l’emergenza: infatti, applica a regime le misure emergenziali introdotte dal d.l. 70/2020 (si era in piena pandemia) per il rilancio dell’economia, che prevedevano appunto l’innalzamento degli importi degli affidamenti diretti, prima confinati entro i 40.000 euro, toccando i 150.000 euro per i lavori pubblici ed i 140.000 per servizi e forniture.
Oggettivamente, si tratta di previsioni difficilmente compatibili con la concorrenza, posto che gli affidamenti diretti postulano un contatto diretto con un unico operatore economico, saltando ogni possibile consultazione, anche ristretta, di altri concorrenti nel mercato. Una restrizione della concorrenza molto evidente, posto che oltre il 90% degli affidamenti transita attraverso queste modalità di assegnazione.
Gli estensori del codice ripongono, con ogni evidenza, molta, moltissima fiducia nel corretto operato di amministratori e funzionari, considerati capaci di agire senza pressioni ed influenze, considerando la concorrenza come principio secondario rispetto ad altri principi enunciati dal codice.
L’appalto sulla fiducia
Si esaltano, invece, i principi del risultato e, appunto, della fiducia. La concorrenza? È considerata dall’articolo 1, comma 2, del codice come “ funzionale a conseguire il miglior risultato possibile nell’affidare ed eseguire i contratti”, dunque un principio “servente” quello fondamentale del risultato.
Che la concorrenza non sia considerata quale invece è, cioè un principio cardine del Trattato UE, lo dimostra anche la Relazione Illustrativa al codice, ove si parla perfino di “demitizzazione” della concorrenza, come se si trattasse, appunto, di un mito, non di un valore, ma di un peso operativo, causa della “burocrazia” delle gare.
Fare presto e fare bene, senza troppi orpelli, invece, è il comandamento. Perché sulla regolarità e la capacità di tenere insieme assenza di consultazione del mercato, concorrenza e risultato, senza incorrere in insolubili ossimori, garantisce il principio della fiducia, che, secondo le affermazioni dell’articolo 2, comma 2, del codice
Favorisce e valorizza l’iniziativa e l’autonomia decisionale dei funzionari pubblici, con particolare riferimento alle valutazioni e alle scelte per l’acquisizione e l’esecuzione delle prestazioni secondo il principio del risultato.
Elevare a dismisura le soglie dell’affidamento diretto, enfatizzare il risultato, “demitizzare” la concorrenza, esaltare la fiducia nell’autonomia decisionale dei funzionari pubblici non può che portare ad una convinzione, nelle PA: le gare, la trasparenza, gli inviti, la pubblicità di avvisi, l’acquisizione di preventivi o di offerte sono burocrazia, perdita di tempo. Affidare direttamente e fiduciariamente si può, anzi si deve.
La “fiducia” è fatta entrare come elemento caratterizzante l’azione amministrativa, nonostante l’elemento fiduciario dei rapporti della PA con i terzi sia del tutto fuori linea con i principi di imparzialità, buon andamento e parità di condizioni posti dalla Costituzione e non trovi minima menzione nelle direttive appalti.
Disinnescare la colpa grave
Ma, Titolare, la fiducia che gli estensori attribuiscono alle capacità dei funzionari e degli amministratori non è, a ben vedere, del tutto piena e riposta senza condizioni.
Risalta, infatti, quanto prevede il comma 3 dell’articolo 2 citato prima. Un comma distinto in due specifiche parti.
La prima è volta a disporre regole di condotta alle quali il funzionario deve attenersi:
Nell’ambito delle attività svolte nelle fasi di programmazione, progettazione, affidamento ed esecuzione dei contratti, ai fini della responsabilità amministrativa costituisce colpa grave la violazione di norme di diritto e degli auto-vincoli amministrativi, nonché la palese violazione di regole di prudenza, perizia e diligenza e l’omissione delle cautele, verifiche ed informazioni preventive normalmente richieste nell’attività amministrativa, in quanto esigibili nei confronti dell’agente pubblico in base alle specifiche competenze e in relazione al caso concreto.
La fiducia, come si nota, non basta. Il codice esprime concetti per un verso scontati, la cui utilità nel corpo normativo non risulta chiara, specie perché gli articoli dedicati ai principi paiono ondeggiare tra l’affermare ed il negare, tra il demitizzare e tornare al mito, tra l’esaltare l’autonomia e poi ricondurla a regole e briglie strette. È evidente che la fiducia non esime dal rispettare leggi, norme di autovincolo e regole di perizia e diligenza. Non si comprende, tuttavia, come tali regole possano essere di volta in volta soppesate e piegate in relazione alla loro esigibilità in connessione alle competenze dell’agente ed al caso concreto. Si vuole, forse, affermare che regole di diritto, di prudenza, di diligenza non costituiscono un sistema operante in modo assoluto e costante in ogni circostanza, ma dispieghino la propria efficacia in modo diverso a seconda delle competenze possedute dal soggetto agente o del caso concreto?
Per questa strada, passare dalla fiducia alla ricerca dello scudo da responsabilità è piuttosto facile. Attribuire, allora, incarichi operativi nelle procedure a soggetti privi di competenze specifiche o, comunque, affermare che la situazione concreta risulterà sempre particolare, tale da richiedere competenze “specifiche” e enunciate come puntualmente assenti, potrebbe essere lo strumento per passare da una fiducia tecnica ad un atto di vera e propria fede: il funzionario pubblico deve essere autonomo, tanto che il rispetto della legge va dimensionato al proprio grado di competenze tecniche ed al caso concreto, ovviamente come di volta in volta percepito. Un’applicazione delle regole, insomma, ad personam.
Non pare occorra molto altro per evidenziare i rischi di un contenzioso immenso, che possa risolversi in un dispendio di energie e tempo, poco produttivo, alla fine proprio dell’individuazione di responsabilità connesse a violazioni di leggi.
Il jolly del parere
Ma, Titolare, gli estensori del codice di fiducia nel principio di fiducia pare ne abbiano avuta non moltissima, visto il contenuto della seconda parte del comma 3 dell’articolo 2, ove si dispone che
Non costituisce colpa grave la violazione o l’omissione determinata dal riferimento a indirizzi giurisprudenziali prevalenti o a pareri delle autorità competenti.
Errare è umano, soprattutto per chi lavora. L’errore è ovviamente sempre dietro l’angolo e, dunque, violazioni (proprio dell’insieme di regole e valori visti poco sopra) od omissioni non possono certo essere escluse. Sarà questo che genera la a sua volta “mitica” paura della firma?
Giusto ed opportuno cercare, allora, di perimetrare nel modo più chiaro possibile le circostanze al ricorrere delle quali scatti la responsabilità.
Persuade, però, molto meno l’operazione opposta, attuata dal codice, cioè di creare un vero e proprio scudo, indeterminato, alla responsabilità.
Il secondo componente del comma 3 contiene almeno due elementi critici. Il primo: esclude la colpa grave qualora il funzionario incorra in una violazione o in un’omissione “determinata dal riferimento a indirizzi giurisprudenziali prevalenti”.
Come dice, Titolare? Se un funzionario nel proprio agire si riferisce ad indirizzi giurisprudenziali, come fa ad incorrere in una violazione o in un’omissione? Un indirizzo giurisprudenziale è composto da una sequenza di sentenze tra loro concordanti, che inquadrano un certo problema in un modo ben preciso, fornendo, quindi indicazioni su come applicare legittimamente norme e regole. Davvero, viene da chiedersi, allora, come l’applicazione di un indirizzo giurisprudenziale possa costituire fonte di una violazione o di un’omissione. A meno di immaginare che l’indirizzo giurisprudenziale sia del tutto erroneo, la violazione o l’omissione possono derivare dall’agire in contrasto con un indirizzo giurisprudenziale o, comunque, dal travisamento di tale indirizzo.
Non si comprende come un assestato modo di interpretare le norme sia configurabile come causa di un errore od omissione tale da escludere la colpa grave. Viene da chiedersi, inoltre, chi e come decide che l’indirizzo giurisprudenziale risulti prevalente? Dovrebbe essere chiaro che il rischio sotteso all’operato della PA è proprio quello di travisare le interpretazioni dei giudici, oppure di applicare decisioni riferite a casi per nulla paragonabili a quello concreto o riferirsi a sparute sentenze che in qualche misura possano fondare l’errore o la violazione. Il principio della fiducia, accompagnato a questa clausola di esclusione da responsabilità per colpa grave potrebbe finire per spingere sistematicamente all’utilizzo strumentale di sentenze, travisandole, come esimente preventiva ad un agire diciamo “disinvolto”.
E, poi, Titolare: cosa succede nel caso di sentenze innovative, che rivedano motivatamente un precedente indirizzo, superandolo e dimostrando che esso era erroneo? In quanto non “prevalenti”, queste sentenze saranno da scartare e, dunque, da considerare ininfluenti ai fini della valutazione della responsabilità per colpa grave?
Un secondo elemento di criticità appare, però, manifestamente più critico: l’esclusione da responsabilità per colpa grave (che, ricordiamolo, significa non rispondere mai per danno erariale) connessa a “pareri delle autorità competenti”.
Sul piano dello stretto diritto, il codice compie un’operazione molto discutibile, perché di fatto finisce per rendere indirettamente il parere, atto solo di natura consultiva, alla stregua di regola di diritto, tale appunto da escludere la colpa grave per chi lo segua e, persino, da vincolare il giudice, in particolare contabile. Infatti, l’evidenziazione che l’amministratore o il funzionario ha commesso violazione od omissione perché ha seguito un parere, ha lo scopo di vanificare l’azione del procuratore contabile o, comunque, di veicolare la decisione del collegio giudicante verso il discarico da responsabilità. Il giudice, dunque, che dispone di poteri amplissimi di valutare le norme e della piena libertà di seguire o discostarsi dai pareri resi dalle autorità amministrative (o anche giurisdizionali: gli stessi pareri delle sezioni regionali di controllo della Corte dei conti non sono vincolanti) risulterebbe appunto condizionato dalla presenza di un parere.
È vero che il parere potrebbe essere utilizzato ad escludere la colpa grave del funzionario solo nel caso specifico e che il giudice, pur assolvendo, potrebbe comunque affermare il principio di diritto per cui la condotta debba considerarsi un illecito, superando così il parere. Ma, questo, varrebbe per i comportamenti futuri di altri funzionari: nel frattempo, il parere avrebbe messo al riparo quel funzionario o quell’amministratore dalle specifiche responsabilità connesse ad una specifica procedura.
Non solo: la norma è scritta in modo quanto meno laconico. Pare riferire l’assenza di responsabilità per colpa grave alla sola circostanza dell’utilizzo di un parere come fonte dell’azione od omissione: non si fa alcun riferimento alla fondatezza e tenuta giuridica del parere, né, a differenza degli indirizzi giurisprudenziali, alla circostanza che il parere sia quanto meno compreso in una linea interpretativa maggioritaria o consolidata.
Il paese delle relazioni
Introdurre il parere come causa di esenzione da responsabilità appare un passo molto discutibile. L’Italia è un Paese di relazioni. Poter contare sulla presenza, all’interno dell’organismo o ente preposto al parere, di una figura “vicina” si rivelerà strategico, per ottenere proprio quel parere, magari eccentrico, anzi singolare, che possa però fare assai comodo al caso particolare.
La fiducia? Più che un principio utile davvero ad aiutare il conseguimento del risultato, pare giocarsi tutta sul terreno dei rapporti, della creazione di pareri ad hoc, del cavillo giurisdizionale. Era il caso di disciplinare un principio così sfuggente e connesso a fattori non oggettivi, ma a sentimenti, in un codice fin troppo aperto a modalità di relazione tra PA e appaltatori opachi e estranei alle logiche del mercato?
Foto di aymane jdidi da Pixabay