Giorni addietro, sul Los Angeles Times è stato pubblicato un articolo a firma di Joseph Stiglitz e Linda J.Bilmes, che segnala che l’Iraq non ha ancora iniziato a spendere la propria ricostituita rendita petrolifera, stimata quest’anno pari a 85 miliardi di dollari. Mentre in tutto il Medio Oriente il forte rialzo dei prezzi dell’energia sta alimentando un boom senza precedenti di consumi ed occupazione (spinto anche dal peg al dollaro delle principali valute dei paesi del Golfo), in Iraq un quarto della popolazione resta disoccupato, e Baghdad fruisce di appena 11 ore di elettricità al giorno. L’Iraq ha tuttora quattro milioni di profughi, e cinque anni dopo la fine della guerra il paese resta in attesa della ricostruzione.
Malgrado un surplus di bilancio che lo US Government Accountability Office stima per il 2008 in 50 miliardi di dollari, i fondi petroliferi iracheni giacciono nelle banche americane nell’inerzia del governo al-Maliki. Il costo della lenta ricostruzione del paese resta quindi a pressoché integrale carico del contribuente statunitense. Negli ultimi due anni, a fronte di 100 miliardi di dollari di ricavi petroliferi, il governo iracheno ha impegnato solo 2 miliardi di dollari in progetti infrastrutturali quali strade, acquedotti e centrali elettriche, mentre ben 48 miliardi di dollari di investimenti sono rimasti a carico del bilancio federale americano. Questa persistente neghittosità del governo iracheno nel mettere mano al portafoglio sta entrando nel dibattito elettorale statunitense, dove la polemica politica è incentrata anche sull’esigenza di irrobustire una dotazione infrastrutturale domestica ritenuta da molti in avanzato decadimento.
Colpisce soprattutto il forte sussidio di cui fruiscono gli iracheni, che pagano la benzina 1,35 dollari al gallone, mentre le forze armate statunitensi devono sborsare il prezzo del mercato mondiale dei carburanti per il milione di galloni che ogni giorno serve per fornire energia alle basi militari americane ed il carburante per aerei, imbarcazioni, automezzi e blindati. Senza considerare il consumo necessario per la logistica, cioè per trasportare prodotti energetici all’interno dell’Iraq. Numeri eloquenti: il consumo di carburanti per militare americano in Iraq è stimato sedici volte quello della Seconda Guerra Mondiale. Ogni mese, gli Stati Uniti spendono per l’Iraq un importo pari a circa 13 miliardi di dollari, mentre i proventi della rendita petrolifera restano inerti su conti bancari internazionali.
Per Stiglitz e Bilmes è tempo quindi che gli Stati Uniti cambino la propria strategia nei confronti del governo iracheno, spingendolo a finanziare direttamente progetti infrastrutturali, magari attraverso un fondo fiduciario alimentato dai proventi petroliferi, mentre gli americani dovrebbero contribuire soprattutto in termini di know-how e formazione del personale iracheno. Il tutto considerando che ad oggi non risulta ancora implementato alcun meccanismo di equa redistribuzione della rendita petrolifera, a vantaggio anche di aree, come quella sunnita, meno fortunate in termini di densità di pozzi sul territorio.
Contrariamente alla fanfara con cui i soliti frettolosi tuttologi hanno accolto la notizia del surplus di bilancio iracheno, la situazione sul terreno è lungi dall’essere stabilizzata, almeno in termini di autosufficienza del governo di Baghdad a gestire la ricostruzione del paese, dopo aver riconquistato capacità di spesa. Gli americani stanno lentamente prendendo coscienza che il pantano iracheno non è fatto solo di stallo negoziale e diplomatico nella regione mediorientale e di overstretch militare, ma anche di costante drenaggio di risorse fiscali dal bilancio federale statunitense.