Nei giorni scorsi abbiamo appreso che l’Iraq avrebbe soddisfatto ben 15 dei 18 parametri-target (benchmark) fissati lo scorso anno dal Congresso statunitense per monitorare i progressi del governo di Baghdad in ambito politico, sociale e della sicurezza. La fonte di tale monitoraggio (compiuto a maggio) è l’ambasciata statunitense nella capitale irachena, e le valutazioni contrastano fortemente con altre fonti, quali il rapporto del Government Accountability Office, pubblicato un paio di settimane fa. Giudizi controversi ed ovviamente non conclusivi, che rappresentano una non-notizia, contrariamente a quanto pensa il solito tuttologo fogliante del “io-ve-l’avevo-detto-che-finiva-così”.
Anche ipotizzando che la valutazione dell’ambasciata Usa a Baghdad sia quella maggiormente realistica, l’Iraq non ha ancora compiuto progressi sostanziali riguardo tre benchmark fondamentali: emanazione ed implementazione della legge petrolifera, formazione della polizia irachena ed effettivo disarmo di milizie e gruppi di insorti. Riguardo il primo punto, reso ancor più urgente ed importante dalla crisi petrolifera, sappiamo che i giganti dell’industria petrolifera e delle materie prime stanno tentando di entrare in Iraq per contribuire all’ambizioso obiettivo, fissato subito dopo la caduta di Saddam, di raddoppiare la produzione di greggio iracheno (che è di eccellente qualità, oltre a presentare ridotti costi di estrazione ed ottima logistica infrastrutturale), portandola a 4 milioni di barili al giorno, a fronte di circa 2,5 milioni di barili odierni. Il governo iracheno, che insiste per mettere ad asta le concessioni petrolifere sotto il vincolo di associare un produttore locale per almeno il 25 per cento, sembra determinato a rompere gli indugi assegnando alcune concessioni a trattativa diretta ad un pugno di compagnie americane.
Questo per restare nell’ambito dei buoni propositi. Ma, ribadiamo, la sostanziale assenza di una fondamentale Hydrocarbon Law (finalizzata, tra le altre cose, a determinare l’entità dei trasferimenti della rendita petrolifera alle principali etnie irachene) rende la situazione complessivamente invariata. Gli americani restano bloccati nel pantano iracheno, esposti al gioco di rimessa iraniano, e continuano a svenarsi per proseguire una operazione che non può essere abbandonata a questo punto. Il tutto senza poter (ancora) beneficiare di una ripresa della produzione petrolifera. Mentre in termini di sicurezza l’ambiente resta fortemente volatile e tuttora pericoloso, esposto a ridefinizioni di alleanze tattiche che potrebbero aver pesato sullo scenario quanto e più dell’azione del generale Petraeus e della sua surge. Riguardo la formazione delle forze irachene il Pentagono stesso, a marzo di quest’anno, ha stimato che il numero di unità irachene in grado di condurre in modo autonomo operazioni contro gli insorti è rimasta stabile intorno al 10 per cento del totale.
Forse così è più chiaro perché tale non-notizia non ha avuto l’onore delle prime pagine, neppure in un paese di giornalismo “distratto” come l’Italia.