di Mario Seminerio – © Libero Mercato
Il dato di venerdì scorso sul mercato del lavoro statunitense, con la perdita di ulteriori 84.000 posti di lavoro ed un tasso di disoccupazione balzato al 6,1 per cento, nuovo massimo da settembre 2003, dovrebbe aver messo definitivamente la parola fine alle congetture sull’esistenza di una recessione americana, volgendole in realtà. Ad oggi, si tratterebbe di una recessione “shallow”, cioè superficiale e tutto sommato poco dolorosa, ma il vero problema è che nulla ci garantisce che non si tratti invece dell’avvio di un processo recessivo che si starebbe approfondendo. Vediamo alcuni dati.
Da inizio anno gli Stati uniti hanno perso 605.000 posti di lavoro nel settore non agricolo, che include la pubblica amministrazione. In percentuale della forza lavoro non si tratterebbe neppure di un numero eclatante, ma storicamente ogni volta che la variazione annua del numero di occupati diventa negativa, l’economia statunitense entra in recessione conclamata. E il dato di venerdì segna la prima variazione annua negativa del totale degli occupati. Dal versante della disoccupazione, per la prima volta da mesi ci troviamo di fronte ad un dato inequivocabilmente negativo, determinato esclusivamente da quanti hanno perso il posto di lavoro, non da chi lo ha lasciato volontariamente (un dato potenzialmente positivo, perché segnala maggiore ottimismo sulle condizioni dell’economia e del mercato del lavoro), né dai reingressi nella forza lavoro da parte di quanti ne erano fino a quel momento rimasti fuori.
Il dato che finora ha consentito ad alcuni osservatori di guardare con compiacenza alle ipotizzate condizioni di resilienza dell’economia americana è soprattutto quello del pil del secondo trimestre, che ha segnato una espansione annualizzata del 3,3 per cento, contro l’1,9 per cento della prima stima, il mese scorso. Anche qui, guardando il dato in controluce, i motivi di ottimismo sembrano pochi. Come sappiamo, il commercio estero ha contribuito alla quasi totalità della crescita. Ciò non dovrebbe essere un dato negativo, visto che si tratta comunque di uno dei motori del pil. Ma se pensiamo che parte non marginale del boom dell’export statunitense deriva ormai dalle materie prime, che nel secondo trimestre hanno goduto di eccezionali rincari, o che l’Asia (Cina in primis) mostra evidenti segni di logoramento del proprio modello di crescita, o ancora che il dollaro sembra aver invertito il proprio trend di deprezzamento, possiamo ipotizzare che tale dato di crescita sia stato solo un blip, come lo chiamerebbero gli economisti: un episodio tanto eclatante quanto isolato, e non un trend.
E’ poi noto che la crescita reale del pil del secondo trimestre è stata ottenuta applicando alla crescita nominale un deflatore straordinariamente basso, solo l’1,2 per cento. Ciò deriva dal fatto che, nella costruzione di tale deflatore, i prezzi all’importazione si sottraggono. Nel secondo trimestre di quest’anno il loro incremento è stato pari ad un vertiginoso 28 per cento. Sembra controintuitivo, ma non lo è: a parità di pil nominale, al crescere dei prezzi all’import il deflatore diminuisce, cioè la crescita reale aumenta. Questo è l’aspetto più propriamente “ottico” della crescita americana del secondo trimestre, che troppo presto ha fatto tirare sospiri di sollievo, ed altrettanto precocemente ha indotto a magnificare la resilienza dell’economia Usa rispetto a quella europea. Tra poco vedremo che non è esattamente così.
Altro dato negativo è poi quello della grandezza nota come reddito interno lordo (ril), che altro non è che il prodotto interno lordo visto non dal versante della spesa, ma da quello dei redditi, in particolare da lavoro e da capitale. Alcuni studi (l’ultimo dei quali del 2007, ad opera di un ricercatore della Fed) hanno mostrato che il ril presenta migliore capacità di individuare tempestivamente le fasi recessive del ciclo rispetto al pil, malgrado le due grandezze siano di fatto identità di contabilità nazionale. Ebbene, il ril del secondo trimestre è cresciuto di solo l’1,9 per cento annualizzato, contro il 3,3 per cento del pil, ed è risultato negativo nei due trimestri precedenti. Dal versante del reddito, quindi, con ormai quattro trimestri consecutivi di profitti negativi (quelli calcolati in contabilità nazionale) e redditi da lavoro sempre più minati dalla crescita della disoccupazione, la recessione appare visibile e manifesta.
Oggi è facile sostenere, dati alla mano, che l’economia statunitense è più reattiva e meglio attrezzata per la crescita rispetto a quella europea. Bisogna però considerare che il prodotto potenziale degli Stati Uniti è più alto di quello europeo. Detto in altri termini, gli Stati Uniti iniziano a perdere occupazione con valori di crescita del pil più elevati di quelli europei: è quello che sta avvenendo oggi, con una crescita media Usa che si situa sopra il 2 per cento annualizzato mentre l’Ue ha ancora una sostanziale stabilità dell’occupazione con una crescita intorno all’1 per cento medio. Naturalmente questo non è l’elogio della decrescita, lungi da noi anche solo l’idea. Gli Stati Uniti hanno un mercato del lavoro più flessibile, ed un’economia più libera e liberalizzata di quella europea, oltre ad una dinamica demografica più sostenuta di quella del Vecchio Continente, elemento che entra nell’equazione della crescita. Ma non dobbiamo tacere che l’imponente deficit delle partite correnti segnala un modello di crescita fortemente sbilanciato sui consumi, che hanno trovato nell’innovazione finanziaria il proprio catalizzatore. In parole povere, l’intera economia americana è andata “a leva”. Non vogliamo essere millenaristici ma pensiamo che gli Stati Uniti siano giunti, con questa crisi, alla rottura di un paradigma di crescita.
Questo overstretch finanziario ed economico è ben rappresentato dalla vicenda di Freddie Mac e Fannie Mae. Le due agenzie “governative ma non governative” che per decenni, sulla scorta di questo “equivoco”, hanno raccolto fondi a tassi di assoluto vantaggio (quelli dei titoli di stato), consentendo il forte sviluppo del mercato immobiliare. Quando le insolvenze sui mutui hanno fatto esplodere la contraddizione sulla reale natura delle due agenzie, l’Amministrazione Bush ha compreso di non poterle lasciar fallire, perché ciò avrebbe danneggiato paesi stranieri che su di esse hanno pesantemente investito per riciclare il proprio surplus commerciale verso gli Stati Uniti. E così, dopo il motto “too big to fail”, troppo grande per fallire, avremo “too foreign-owned to fail”, troppo acquistata (da quegli stranieri che da decenni sostengono i consumi americani) per fallire. La sola Cina detiene obbligazioni delle due agenzie per circa 400 miliardi di dollari. Il Tesoro interverrà anche per proteggere la moltitudine di banche locali statunitensi che sono pesantemente investite in azioni privilegiate di Fannie e Freddie, e rischiano a loro volta l’insovenza; ed il bilancio federale subirà un altro colpo, perdendo ancora un po’ di quella flessibilità e capacità di stimolo anticiclico che noi europei (e soprattutto noi italiani) abbiamo sempre invidiato.
E’ quindi probabile che, al termine di questo doloroso e non breve processo di aggiustamento, la crescita potenziale degli Stati Uniti possa essere più simile, per magnitudine, a quella europea; quest’ultima auspicabilmente accresciuta da ulteriori liberalizzazioni sui mercati del lavoro e della produzione.