Sul Financial Times Arvind Subramanian, prendendo le mosse da alcune considerazioni di Kenneth Rogoff, scherza (ma non troppo) sulla possibilità di “salvataggio” degli Stati Uniti ad opera della Cina. Questa volta sarebbe un bailout molto diverso da quello degli ultimi anni, che si è basato sull’incondizionato acquisto di titoli di stato statunitensi per riciclare l’enorme e crescente surplus della bilancia commerciale cinese. Questa volta vi sarebbero due condizioni, tali da rendere il salvataggio del tutto simile a quelli che la World Bank ed il Fondo Monetario Internazionale imponevano ai paesi emergenti sommersi da debito.
La prima condizione che i cinesi dovrebbero imporre è quella della ricapitalizzazione governativa delle banche, a cui il piano Paulson non ha dato risposte. La seconda condizione, da sempre un orpello usato da Banca Mondiale e FMI per indorare la pillola ai paesi del Terzo mondo soccorsi, è quella di istituire delle “reti di protezione sociale”, destinando parte dei fondi del salvataggio ad attenuare l’impatto della crisi sui proprietari di case, per tenere vivo il sogno americano. Secondo Rogoff l’intervento cinese avrebbe il pregio di emendare i comportamenti viziosi tenuti da Pechino nel mantenere artificialmente basso il cambio dello yuan, legandolo al dollaro, e servirebbe inoltre a tutelare l’export cinese sul suo principale mercato di sbocco, quello americano.
E soprattutto, la Cina dimostrerebbe grande senso di responsabilità , soccorrendo l’attuale egemone planetario. Con buona pace di tutti i neocon.