Immaginate un cliente che, il 2 gennaio prossimo, si reca in banca per stipulare un mutuo prima casa a tasso variabile. Dal 30 novembre il governo ha stabilito che
“A partire dal primo gennaio 2009, le banche che offrono alla clientela mutui garantiti da ipoteca per l’acquisto dell’abitazione principale devono assicurare ai medesimi clienti la possibilità di stipulare tali contratti a un tasso variabile, indicizzato al tasso sulle operazioni di rifinanziamento principale della Banca centrale europea”
Immaginate che il 2 gennaio sia oggi, e che i tassi d’interesse siano quindi 3,25 per cento per il tasso-chiave della Banca Centrale Europea, e 3,95 per l’euribor a 3 mesi. Il nostro aspirante mutuatario, che ha fatto studi quantitativi, non ha dubbi: vuole il tasso indicizzato a quello Bce. Osservando i fogli informativi analitici proposti dalla sua banca, tuttavia, scopre che sia il mutuo indicizzato al tasso Bce che quello indicizzato all’euribor hanno lo stesso tasso complessivo, perché la banca ha deciso di praticare sul primo uno spread di esattamente 70 punti-base superiore a quello praticato sul secondo. Il nostro aspirante mutuatario si sente lievemente preso per i fondelli, e fa le proprie rimostranze al direttore della sua filiale. Il quale, sfoderando uno smagliante sorriso ed offrendogli il cioccolatino d’ordinanza, gli fa presente che è proprio il decreto-legge del 30 novembre 2008 a consentire alla banca questo giochino delle tre carte. Recita infatti il testo del dl:
“Il tasso complessivo applicato in tali contratti è in linea con quello praticato per le altre forme di indicizzazioni offerte”
In sostanza, prosegue l’affabile direttore di filiale, il tasso complessivo praticato resterà nella discrezionalità della banca, che deve seguire le condizioni prevalenti sul mercato per realizzare la raccolta obbligazionaria a fronte del mutuo. Il cliente, sbigottito, inizia a non capirci più nulla. Ma allora, si chiede, a che serve aver fissato l’indicizzazione al tasso base della Bce, se poi si finisce di fatto con l’essere ancora agganciati all’euribor? Beh, replica il direttore mentre porge al cliente l’ennesimo cioccolatino, ciò che viene garantito dalle nuove norme è il diritto a chiedere, quando si sottoscrive il mutuo a tasso variabile, un tasso di riferimento più basso; ma un conto è il tasso di riferimento, un altro il tasso complessivo, composto da tasso di riferimento più spread. Il nostro aspirante mutuatario, quindi, dovrà cercare di prevedere quale dei due tassi di riferimento avrà un andamento per lui più favorevole, nel corso della durata del mutuo. Dovrà, in sostanza, diventare un economista, e sarà quindi condannato a non prenderci quasi mai.
Del resto, come ha bene spiegato Tremonti nella sua lunga conferenza stampa scamiciata del 27 novembre (quella in cui ha reiterato i concetti di Moralità, Storia, Dio, Patria, Famiglia, “Right or Wrong, my Country”), sul tasso di riferimento la banca può fare il prezzo che vuole, cioè applicare lo spread che vuole, ma lo deve dichiarare. Beh, si, in effetti finora le banche non dichiaravano nulla, non esistevano leggi che impongano di comunicare tutte le variazioni alle condizioni contrattuali, né altre normative che consentano di conoscere il costo e l’indicizzazione del mutuo. Il cliente veniva finora fatto accomodare in una caverna buia all’interno della filiale, e là la sua mano guidata a firmare qualcosa che egli neppure può scorgere. E più non dimandare.
Certamente questa innovazione di Tremonti aumenterà la trasparenza. Nel senso di rendere trasparente che viviamo in un paese governato da treccartari. E, sopvattutto, basta col mevcatismo.