Vorrei ma non posso. Per fortuna

Sergio Marchionne rompe gli indugi sul caso-Opel e sul ruolo dei governi, segnatamente di quello italiano:

“Il governo italiano, con tutto quello che si è detto, ha fatto quello che doveva fare. E’ stato lontano da questo problema e deve continuare a stare lontano fino a quando il progetto non si concretizza. Fiat ha chiesto al governo tedesco di dare sei miliardi di finanziamento o perlomeno di appoggio e di garanzie alla nuova entità. Credo che sia un sistema di garanzia che deve essere creato dal governo tedesco insieme ad altri governi europei. Quindi lo spazio per il governo italiano di giocare quella partita là, c’è. Se l’operazione non va in porto non c’è nessuna necessità di farlo. Credo che il governo si sia comportato bene, io non avrei fatto nient’altro”

L’argomentazione di Marchionne è ineccepibile. L’affare-Opel  è ormai talmente contaminato dalla politica che difficilmente finirà bene, come sembra far presagire anche l’annuncio-lampo di Sberbank che, prima ancora di essere entrata nel capitale di Opel, comunica che girerà la propria partecipazione ad altri investitori russi. Questa vicenda suggerisce alcune considerazioni.

In primo luogo, che a Marchionne di Opel importa, ma solo entro un quadro di compatibilità e razionalità economiche che oggi non sembrano esserci. Questo è e resta un mercato dei compratori, non dei venditori. In secondo luogo, se Opel saltasse (cosa teoricamente possibile), Marchionne e gli altri carmaker attivi soprattutto sul mercato europeo sarebbero immediatamente beneficiati di un ridimensionamento dell’eccesso di capacità produttiva settoriale, una autentica manna per costruttori che tentano disperatamente di ridurre non solo la leva finanziaria, ma soprattutto quella operativa, cioè il punto di breakeven delle produzioni. In terzo luogo, Marchionne sa perfettamente che il governo italiano non poteva e non può mettere sul tavolo del negoziato alcunché perché a corto di risorse fiscali, come testimoniato anche dalla pantomima dei fondi spostati qui e là nei capitoli di bilancio pubblico.

Semplicemente, l’Italia non ha nulla da offrire, ed anche per questo può ergersi a paladina del libero mercato. Il contributo italiano, visto quello che hanno in mente i tedeschi, si sarebbe potuto sostanziare solo nella chiusura o nel drastico ridimensionamento di Melfi, Pomigliano e Termini, visto lo stock di capacità in eccesso che deve essere tagliato, e che evidentememte non potrebbe essere tagliato in Germania. E in quel caso avremmo assistito ai giustificati strepiti di opposizione e sindacato. Che tuttavia hanno ritenuto di dover strepitare comunque e “a prescindere” e mal gliene incolse, soprattutto a seguito di questa presa di posizione dell’abile Marchionne.

Il vero problema del sistema partitico italiano, in questa congiuntura, sono le opposte demagogie: una cappa mefitica che avvolge il paese. Un paese costretto ad affidarsi alla retorica perché è in crisi fiscale conclamata, una crisi che può essere curata solo stimolando con ogni mezzo la crescita. Non preservando lo status quo (come purtroppo ha scelto di fare ampia parte del governo), né invocando miracolosi interventi pubblici nei quali si aumentano le tasse per fare redistribuzione, il mantra reiterato da un’opposizione che non riesce a liberarsi della propria camicia di forza ideologica.

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