I mercati stanno esprimendo crescenti timori per un double-dip, cioè una ricaduta in recessione o un marcato rallentamento, causato dal deterioramento della situazione europea e dal progressivo sfumare dell’impulso di stimolo americano, nel secondo semestre. Il mercato immobiliare d’oltreoceano ha mostrato, sui dati di maggio, quanto fallace ed inefficiente sia stato il credito d’imposta adottato dall’amministrazione Obama, con un crollo quasi verticale delle compravendite del nuovo, che già dal prossimo mese si trasmetterà alle case esistenti. Inutile attendersi spinte espansive dall’immobiliare residenziale, che tradizionalmente è stato il motore della ripresa, con il consumatore. La situazione europea è molto grave, ma tutti fingiamo il contrario.
L’andamento dei titoli di stato greci in questi giorni, tuttavia, sembra più legato all’espulsione dai portafogli di titoli di stato di Atene, in vista dell’uscita della Grecia dagli indici dei mercati sviluppati, entro il 30 giugno. E’ di tutta evidenza che, con una pressione di vendita (per quanto ridotta) che non trova pronto assorbimento, le quotazioni cedono ed i credit default swap seguono, fornendo l’inquietante impressione di una catastrofe imminente. Crescono le difficoltà delle banche europee, soprattutto ma non esclusivamente di quelle spagnole e portoghesi, che ormai ricorrono in modo massivo alla Banca centrale europea, che sarà quindi costretta a reiterare le maxi-operazioni di fornitura di liquidità a piè di lista, se vuole evitare un’ecatombe.
A breve avremo gli esiti degli stress test sulle banche dell’Eurozona, e saranno tanto rassicuranti quanto metodologicamente ridicoli: non verranno ad esempio applicate decurtazioni ai titoli di stato del Club Med, allo stesso modo in cui la ponderazione per classi di rating fornirà risultati fuorvianti. Ma che accadrà se, per puro accidente, si scoprirà che alcune big devono essere ricapitalizzate con urgenza? Qui non c’è nessun TARP, a differenza di quanto accaduto in America, e già Willem Buiter, dal suo ufficio a Citigroup, parla di un fabbisogno di almeno 2000 miliardi di euro. Volete mettere fuori combattimento un mercato? Non legiferate contro la speculazione, seminate dubbi.
Altri indici, più remoti e meno tracciabili, come il Baltic Dry Index, sono in continuo ripiegamento mentre, sul mercato obbligazionario americano, le quotazioni dei Treasury sono ormai palesemente incardinate in un percorso di “decennio perduto” alla giapponese, con rendimenti in caduta libera. Lo scenario è sempre più di marcata disinflazione o di incipiente deflazione. C’è, a questo riguardo, una evidente confusione da parte di quanti si attendono ormai da un paio d’anni un’iperinflazione. La base monetaria è esplosa ma l’offerta di moneta è a crescita zero o negativa, perché il moltiplicatore della moneta è precipitato. Altra analogia tra la situazione attuale e quella del Giappone, dove qualcuno si attende iperinflazione da circa quattro lustri, ottenendo invece una cocciuta e perniciosa deflazione.
Come finirà? Se qualcuno riuscirà a rinchiudere Axel Weber in uno sgabuzzino e a gettare la chiave, avremo un easing quantitativo anche da parte della Bce, che servirà ad acquistare tempo per il sistema bancario, che in media in Europa non si sente molto bene. Possibile (meglio, probabile) una ripresa in grande stile della monetizzazione da parte della Fed. In quel caso avremo (forse) una reazione rabbiosamente rialzista dei mercati, non è chiaro quanto durevole.
Ultima, piccola osservazione sulle previsioni Confindustria per l’economia italiana per il 2010 e 2011. Sono molto ottimistiche (come da noto bias di Luca Paolazzi, non ce ne voglia Oscar Giannino se dissentiamo da lui), essenzialmente perché incorporano nei modelli un nuovo e più basso livello dell’euro, in un quadro di forte enfasi sullo sviluppo del commercio estero globale. Il principale rischio, per questo scenario, è dato dalla crescita del costo del debito sovrano, causato da crescente diffidenza dei mercati, non solo verso il nostro paese. Un esito di questo tipo getterebbe alle ortiche tutto il percorso di consolidamento fiscale, e ci esporrebbe a gravi rischi. L’area di maggiore criticità è quella della produttività e del costo del lavoro per unità di prodotto. Troppo bassa la prima, troppo alto il secondo. In un paese in cui servirebbe sostenere il netto in busta e ridurre il costo del lavoro, l’unica soluzione sarebbe un taglio epocale al cuneo fiscale, dal versante dell’azienda e del lavoratore. Fin quando ciò non accadrà, il governo (ogni governo) avrà fallito la propria missione.
Avremo modo di riparlarne. E comunque scordatevi che ne usciremo meglio di altri.