E così, alla fine la Bank of Japan ha capitolato, intervenendo sul mercato dei cambi e vendendo yen contro dollari. Operazione futile se non supportata da altre banche centrali, e fors’anche in quel caso. Le origini della vicenda sono note: lo yen si apprezza, rendendo sempre più dura la vita degli esportatori giapponesi, oltre ad esacerbare la perniciosa deflazione che attanaglia il paese da molti anni.
La situazione è peggiorata quando i cinesi hanno deciso, nel tentativo di diversificare le proprie riserve valutarie, di comprare titoli denominati in yen, spingendo il cambio della divisa giapponese in ulteriore rialzo. Poiché la BoJ compra dollari contro yen, e di fatto lo fa anche per reagire ad un’azione cinese, ecco che Pechino si è trovata una vittima designata per reiterare quello che fa da anni: riciclare il proprio surplus commerciale comprando attività denominate in dollari. L’unica differenza è che in questo caso l’acquisto è effettuato da un paese terzo. L’intervento giapponese è inoltre non sterilizzato, cioè gli yen venduti contro dollari restano nel sistema economico (o meglio sui conti di riserva delle banche) nella speranza che prima o poi finiscano col rivitalizzare l’economia.
C’è inoltre da considerare che la Fed non sembra avere immediata esigenza di intervenire per cercare di smorzare la tendenza all’apprezzamento della divisa di un paese, il Giappone, che è strutturalmente in surplus commerciale. Da qui il rischio di inutilità di un isolato intervento giapponese sul mercato valutario. Ancora una volta, la Cina gioca il ruolo di elefante nella cristalleria dell’economia globale, beneficiando gli esportatori di materie prime e danneggiando gli esportatori di prodottti finiti attraverso la diversificazione delle riserve.
Immaginate che potrebbe accadere il giorno che la Cina decidesse di riciclare il proprio surplus commerciale investendo pesantemente in Bund tedeschi.