Di uomini, lupi ed hedge fund

Su il Giornale, il professor Francesco Forte tenta di minimizzare e screditare il negative outlook di Standard & Poor’s sul rating sovrano a lungo termine dell’Italia. Secondo Forte, le valutazioni di S&P sarebbero infatti

“in­fluenzate dalla propaganda pro dollaro di questa agenzia di ra­ting, controllata da grandi hedge fund statunitensi”

Prego?

Da quello che risulta a noi, Standard & Poor’s è controllata dal 1966 The McGraw Hill Companies, che non è un hegde fund ma un editore, sia pure molto particolare. Né ci risulta che gli hedge fund abbiano partecipazioni strategiche, cioè immobilizzate, in case editrici. Non avrebbe senso, visto che il mestiere degli hedge è un altro. Ma forse Forte si confonde con il fatto che S&P pubblica e cura la manutenzione, tra innumerevoli altri, anche di indici di performance degli hedge fund. Speriamo (per lui) che questa nostra inferenza sia errata.

Né si comprende che voglia dire che le agenzie di rating sarebbero influenzate dalla “propaganda pro-dollaro”. Frase del tutto incomprensibile: gli investitori fanno soldi (e li perdono) senza guardare in faccia a nessuna valuta, neppure la propria.

Tra le altre considerazioni di Forte, è assai difficile credere che S&P si sia basata, per formulare la propria valutazione, su dati singoli, quale “l’indice fisico della produzione industriale e su quello del Pil del primo trimestre, che danno una crescita dello 0,1 per cento soltanto”. Se le agenzie di rating si basassero sul dato di un trimestre, sarebbero già state seppellite da una risata. Allo stesso modo, non è il caso di entusiasmarsi per il dato di marzo di fatturato e ordini industriali, come invece fa Forte, che arriva a parlare di “boom” per il tendenziale che non è neppure corretto per i giorni lavorati, oltre ad essere una serie fortemente erratica anche sul congiunturale, cioè sul dato mensile.

Altra cosa. Forte sostiene che

«Va poi tenuto presente che il Pil a cui si commisura il debito pubblico non è quello reale, ma quello no­minale al lordo dell’aumento dei prezzi, superiore alle previsioni»

Anche questo è poco comprensibile. E’ vero che l’inflazione gonfia, ceteris paribus, il Pil nominale e tende a svalutare lo stock di debito reale, ma l’aumento dell’inflazione aumenta anche il costo del debito, aumentando i rendimenti di mercato, spesso anche in modo più che proporzionale all’aumento del livello generale dei prezzi, nei paesi che hanno un elevato stock di debito, a causa del premio al rischio. E comunque, Forte sa (o dovrebbe sapere) che quando la crescita reale è inferiore al costo medio reale del debito, quest’ultimo cresce e si autoalimenta. E dovrebbe anche sapere che oggi il Pil nominale italiano cresce intorno al 3,5 per cento, ma il costo medio nominale del debito è prossimo al 4,5 per cento, quindi lo sbilancio persiste anche sulle grandezze nominali.

Quanto al fatto che Irlanda e Spagna, prima della crisi, avessero conti pubblici in ordine e sono poi state travolte dalla necessità di sostituire debito pubblico a quello privato per evitare il crack, la circostanza è del tutto irrilevante, ai fini della sostenibilità del debito del nostro paese, che come detto deriva, escludendo eventi eccezionali e passività contingenti, dal differenziale tra costo del debito e crescita, che lo si guardi dal punto di vista nominale o reale.

Per altre considerazioni sul negative outlook di S&P e sulle stralunate reazioni che esso ha causato nel Belpaese ci leggiamo domani su questi schermi, se volete.

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