Sul Messaggero, il professor Marco Fortis (e chi altri, sennò?) ci spiega pazientemente che, dopo i deludenti dati di Pil francese e tedesco del secondo trimestre, l’Europa ed il mondo devono prendere atto e coscienza che andiamo verso una fase di grande debolezza congiunturale e che, quindi, il nostro paese potrà evidenziare meglio di altri (la cui crescita è stata dopata o è “irrealistica”), che il modello italiano va piano, sano e lontano. Vediamo se è proprio così.
Fortis scrive che “in meno di una quindicina di giorni tante certezze si sono sbriciolate”, parlando di Stati Uniti e Germania. I primi hanno rivisto le serie storiche di Pil, evidenziando una contrazione peggiore delle prime stime, durante la recessione. Fortis non lo scrive, ma lo stesso è accaduto anche in Italia. Poi, lo shock di una revisione pesantissima del Pil americano del primo trimestre, “da più 0,5 a più 0,1 per cento”. In questo secondo caso, è utile sapere che quella revisione è derivata soprattutto dallo spostamento di poste di contabilità nazionale, che hanno ridotto l’investimento in scorte e aumentato le importazioni. Succede spesso: se fate mente locale, un’impresa o consuma il magazzino o acquista sul mercato, spesso importando. Le due voci, però, sono antitetiche, nel senso che la prima aggiunge al Pil, la seconda sottrae. Ma non sottilizziamo, anche perché Fortis era riuscito a scrivere, dopo la pubblicazione di questo dato, che le statistiche macroeconomiche americane sarebbero “inaffidabili”, e voi capite che siamo sul filo del ridicolo, meglio non insistere.
Fuori di tecnicalità, e parlando della Germania, Fortis liquida anche i poveri tedeschi, rei di “sperare di crescere soltanto esportando fuori dall’Europa”. Non sappiamo se i tedeschi sperano davvero questo, ma di certo la Cina è alla base del boom tedesco, e da non pochi trimestri. Ma al di là di tutte queste elucubrazioni, Fortis dovrebbe sapere (almeno per il lavoro che fa, quando non scrive sui giornali) che da un singolo dato non si ricavano trend, e che i dati (quelli finali, soprattutto, non le prime stime) vanno disaggregati, prima di pontificare.
Se Fortis seguisse queste due regolette (ferree più che auree) saprebbe che, tra le altre cose, nel secondo trimestre la Germania ha “restituito” l’exploit del primo trimestre, quando la sua crescita fu dell’1,5 per cento congiunturale e del 4,8 per cento tendenziale, palesemente insostenibile. Per Fortis, e per i lettori curiosi, qui i numeri aggiornati al secondo trimestre di quest’anno, e per i precedenti. Comparate quelli tedeschi (ma anche quelli francesi) a quelli italiani, è un esercizio piuttosto utile, oltre che suggestivo nel senso etimologico del termine. Noterete che anche la Francia, nel primo trimestre, ha avuto il suo mini-boom (soprattutto manifatturiero), per il quale ha pagato dazio nel secondo trimestre. Per l’Italia nulla del genere è accaduto, nella prima metà del 2011. E se Fortis lavorasse su medie mobili di trimestri di Pil? Così, la buttiamo là.
Altro suggerimento metodologico per il professore: guardare il tendenziale, oltre al congiunturale. L’Italia, questo trimestre, cresce dello 0,8 per cento tendenziale, cioè sul secondo trimestre 2010; la Germania del 2,6 per cento, la Francia dell’1,6 per cento, l’Eurozona e la Eu-27 dell’1,7 per cento. Poi, per carità, Fortis potrà dirci che la colpa è della droga rappresentata dalla spesa pubblica, che spinge in alto il Pil per relazione contabile, come già fece nel primo trimestre. Salvo poi scoprire che, nel primo trimestre, il più 0,1 per cento di Pil italiano fu fatto in misura preponderante proprio dalla spesa pubblica. Questi sono i problemi, quando si guarda un dato grezzo e vi si legge ciò che fa comodo alla propria tesi, senza darsi l’incomodo di attendere la stima finale, con disaggregazione inclusa.
A proposito di stima finale, attendiamo Fortis proprio a quella italiana del secondo trimestre, tra qualche settimana. In quella circostanza sapremo quanto di quell’eclatante più 0,3 per cento è stato fatto da domanda di consumi, investimenti fissi, spesa pubblica, commercio estero netto. Potremmo anche scoprire con disappunto che quello 0,3 per cento deriva da accumulo indesiderato di scorte, causato dalla debolezza della domanda finale, e che costringe quindi a tagliare i programmi di produzione per svuotare il magazzino. Se così fosse (ma non lo sappiamo, e neppure Fortis, ad essere sinceri) sarebbe un grosso problema.
Parliamoci chiaro: nessuno nega che nel mondo sia in atto un rallentamento, e che presto potremmo scoprire che la storia della frenata post-tsunami giapponese non spiega tutto, e che ci sono motivi non transitori dietro questa crescita divenuta fragile e gracile. Ma leggere uno ed un solo dato, e trarre tutte le inferenze che Fortis abitualmente trae, depone assai male per la sua reputazione. Quella accademica, non quella da editorialista. Quella è già andata in malora, temiamo, dopo avergli visto elogiare la crescita nominale del nostro export fregandosene di quella reale e, soprattutto, dell’import, quelle due cosine che vanno trattate in modo congiunto, in termini reali, e che determinano una cosa chiamata “ragioni di scambio”, la misura della competitività di un paese. E lì, siamo messi peggio, in tendenza di non breve periodo.
Ma Fortis è fatto così: lui è panglossiano, e ricorda quei politici che perdono in malo modo le elezioni ma riescono a dirci che le hanno vinte, “e comunque i nostri avversari hanno aumentato i consensi di solo il 2 per cento, contro il nostro calo dell’1 per cento. Ma noi siamo più belli di loro, però, cicca-cicca”.
Ci vuole sempre più pazienza.