Negli Stati Uniti si è sviluppata una vibrante discussione circa la solidità della crescita del Texas, soprattutto in termini di crescita dell’occupazione. Come noto, il governatore Rick Perry, aspirante alla nomination Repubblicana, trae ampio vanto dal fatto che il Lone Star ha creato il 40 per cento del totale dell’occupazione statunitense, in questa congiuntura estremamente problematica.
La tesi del “miracolo texano” è avversata soprattutto da Paul Krugman, che la considera frutto di fallacia. Krugman, infatti, sostiene che la crescita texana sarebbe frutto soprattutto della crescita della popolazione, per elevato tasso di natalità ed immigrazione. Il Texas, dal 1990, ha una crescita demografica doppia rispetto a quella media statunitense, favorita dal basso costo della vita, sul quale incidono costi di abitazione più contenuti che in altri stati, grazie ad una migliore politica di zoning. Il Texas, inotre, ha un tasso di sindacalizzazione molto basso ed una ridotta incidenza dei salari minimi garantiti, oltre a mancare di una imposta personale sul reddito.
E’ fin troppo evidente che simili caratteristiche sono il carburante per una disputa ideologica circa la capacità di una regolazione “leggera” di creare occupazione e sviluppo, e Perry ha tutta l’intenzione di utilizzare questi argomenti come selling points della propria campagna elettorale.
Non tutto è così lineare ed acquisito, però. Krugman, ad esempio, sostiene che non è possibile applicare ad un intero paese le ricette di un suo stato, perché questo sarebbe un caso di fallacia di composizione. In altri termini, il beggar thy neighbour a base di basso costo del lavoro, se valido per il singolo stato rispetto ad altri più regolamentati e liberal, ove applicato all’intero paese (ammesso e non concesso di riuscirvi) porterebbe ad un effetto deflazionistico nazionale piuttosto evidente.
Escludendo considerazioni “banali” sulle industrie in maggiore espansione in Texas, tra le quali vi è ovviamente quella petrolifera, ma anche quella agricola, ed escludendo anche la crescita dell’occupazione nel settore pubblico, che è avvenuta a passo superiore rispetto a quella del settore privato, il vero criterio dirimente è quello di comparare la crescita dell’occupazione con quella della forza lavoro. Se la prima non tiene il passo della seconda, si verificano pressioni al rialzo sul tasso di disoccupazione. Che, nel caso del Texas, con l’8,2 per cento è in effetti tutto fuorché rappresentativo di un “miracolo”.
Tra i dati disponibili c’è ad esempio quello che segnala che, negli ultimi due anni e mezzo, il Texas ha creato 126.000 nuovi posti di lavoro, ma a fronte di una forza lavoro che è aumentata di 437.000 unità. Ci sono stati, come il Michigan, che hanno perso impieghi ma hanno visto la forza lavoro restringersi in misura ben superiore. Ovviamente, occorrerebbe discutere sul perché la forza lavoro si è ristretta (e pensiamo ciò non sia avvenuto per motivi particolarmente positivi), ma resta il fatto che in Texas la creazione di occupazione non tiene il passo della crescita della popolazione. Anzi, il paese è ultimo nella classifica in valore assoluto della differenza tra impieghi creati e crescita della forza lavoro. Il vero “miracolo” lo ha fatto il piccolo North Dakota, che ha creato nello stesso periodo 27.000 nuovi impieghi, a fronte di una espansione della forza lavoro di sole 3.700 persone.
Ancora: dal picco di disoccupazione nazionale dell’ottobre 2009, il Texas ha fatto peggio del resto del paese; nel corso della recessione, il tasso di disoccupazione texana è cresciuto costantemente (per i motivi detti sopra). Quanto ad altre affermazioni di Perry, la tort reform medica del 2003 non ha portato in Texas torme di camici bianchi, attratti dai bassi costi della professione (almeno in termini di coperture assicurative necessarie), perché i dati semplicemente lo negano; lo scorso anno, gas e petrolio hanno portato nelle casse dello stato 13 miliardi di dollari, il 40 per cento delle entrate totali, attenuando enormemente la pressione ad alzare le tasse. Il tutto senza dimenticare che, quando Perry è diventato governatore per la prima volta, il greggio era a 25 dollari al barile. Quanto alla fiscalità, l’assenza di una imposta personale statale sul reddito rende il Texas uno degli stati a tassazione più regressiva, data l’ovvia preponderanza di accise, soprattutto su tabacco ed alcolici.
Ci sarebbero poi alcune altre metriche di qualità della vita, dove il Texas non pare esattamente primeggiare, ma quelle non le enfatizzeremmo più di tanto.
In sintesi, pur aguzzando la vista, noi un “miracolo texano” proprio non riusciamo a scorgerlo. Né è possibile pensare ad una texanizzazione degli Stati Uniti, operazione che non è riuscita neppure alla famiglia Bush, peraltro. Ciò non significa che Perry non possa essere il candidato presidenziale Repubblicano, e magari diventare anche il nuovo presidente, tutt’altro. Significa solo che non siamo di fronte ad un uomo che plasmerà una Nuova America per il semplice motivo che è stato finora il Texas ad aver vincolato e necessitato il suo stile di governo. Sulla scena nazionale si suona ben altro spartito.