Come già mesi addietro ebbe modo di gettare un sasso in piccionaia lanciando l’allarme sulla sottocapitalizzazione delle banche europee, oggi il direttore generale del FMI, Christine Lagarde, torna a sferzare l’inettitudine europea a gestire la crisi di debito sovrano. E lo fa parlando in Germania, concedendosi anche il lusso di citare Goethe. Non è detto che qualcuno la ascolti, ma qualche innegabile onda d’urto politica la produrrà.
Parlando a Berlino, Lagarde ha detto che il mondo rischia un remake della Grande Depressione, in assenza di azioni realmente risolutive della crisi. E’ il mondo intero ad essere avviluppato da una crisi persistente, ma il riferimento all’Eurozona è forte e chiaro. Il detonatore della crisi è il crollo della fiducia, causa ed effetto del ripiegamento su politiche nazionali che ostacolano la cooperazione. Il messaggio per l’Eurozona è netto: serve
«Una crescita più forte, dei firewall più grandi ed una integrazione più profonda»
Non vi diremo che si tratta dell’antitesi delle linee-guida attraverso le quali la Germania sta guidando l’Eurozona al disastro, perché poi direste che siamo monocordi, ma il concetto è quello. Se in Eurozona abbiamo in corso una recessione autoinflitta perché il medico ci ha ordinato che entro il 2014 dobbiamo essere a pareggio di bilancio, accada quel che accada, non è colpa del destino cinico e baro. Analogamente, se qualcuno gioca al piccolo Orwell e tenta di lavare il cervello a governi ed opinione pubblica affermando che “unione fiscale” vuol dire che ogni paese è solo nei suoi sforzi da Sisifo per raggiungere questo pareggio di bilancio che ci farà entrare in una Nuova Era, la responsabilità non è di una sfortunata congiunzione astrale. Se non si può/vuole trovare le risorse per un fondo salva-stati che metta paura ai mercati, mentre i paesi tentano di ristrutturare le proprie economie verso (forse) maggiore competitività, e per fare ciò si esclude categoricamente il coinvolgimento della Bce, di qualcuno occorrerà individuare la responsabilità politica.
La Lagarde sta cercando di raddoppiare le disponibilità del FMI, per ogni evenienza di salvataggi futuri. Questo tentativo si scontra con le perplessità (per usare un eufemismo) dei paesi emergenti, e con la esplicita contrarietà degli Stati Uniti, impegnati in un anno elettorale. Ma motivi per essere perplessi, riguardo il coinvolgimento del FMI in Eurozona, hanno solide radici. L’istituzione di Washington entra in scena, di solito, in presenza di crisi di bilancia dei pagamenti, ed impone le proprie condizioni per il riequilibrio. Ma in Eurozona non esiste alcuno squilibrio di bilancia dei pagamenti, a livello aggregato: il saldo galleggia in prossimità dello zero. Il problema è che questo saldo zero è frutto di un surplus tedesco ampio e persistente e di un deficit spagnolo, portoghese, greco, italiano, francese, che del primo è immagine speculare. Se in Eurozona esistono squilibri interni, non è né deve essere affare del FMI, argomentano alcuni.
Lagarde ha chiesto che le banche non siano costrette a tagliare la dimensione del proprio bilancio, cosa che invece sta accadendo perché gli stress test dell’EBA sono stati la peggiore mossa nel momento peggiore. Quando il direttore generale del FMI aveva lanciato l’allarme sulla sottocapitalizzazione del sistema bancario europeo, accolta da vibrate proteste di Trichet e della Commissione, non aveva certo in mente una manovra così assurdamente prociclica. Eppure, a poche settimane da quell’allarme, giunsero i surreali risultati di quei test, e con essi la nuova tappa della discesa agli euro-inferi.
Del firewall europeo si è detto: Draghi (e Monti) lo vogliono ben più ampio dei risicati 500 miliardi previsti per l’ESM. E anticipare l’entrata in vigore del meccanismo non servirà a nulla, permanendo queste rachitiche dimensioni. Qui la risposta tedesca, dopo le abituali giravolte, è stata possibilista circa l’eventualità di affiancare all’ESM il fondo di stabilità oggi in essere, l’EFSF. Si arriverebbe a poco meno di 1.000 miliardi di euro. Sempre pochi, peraltro, rispetto alle esigenze. Ma è sul tema dell’integrazione che l’atto di accusa della Lagarde (e del senso comune) è più aspro: ad oggi, infatti, nulla è stato fatto per la gestione dei dissesti bancari e soprattutto per una reale unificazione del mercato creditizio europeo, a livello di supervisione e regolazione.
Gli interessi nazionali hanno impedito quella che è forse l’unica riforma realmente risolutiva della crisi, attuale e futura. Salvo produrre qualche intervento estemporaneo ed ipocrita, come il tentativo franco-tedesco di rinviare di un triennio la piena entrata a regime di Basilea III, per convergenti esigenze di bottega e senza alcuna organicità dell’intervento. La conferma che la Germania non è l’illuminato faro di un continente austero e risanato, ma un egemone privo di visione sistemica e destinato per ciò stesso a creare rilevanti danni.
Lungi da noi l’idea di glorificare Christine Lagarde. Ma di certo questa francese, ex ministro delle Finanze di Sarkozy, dimostra di avere visione politica ben maggiore di quella del tutto ristretta della sopravvalutatissima Kanzlerin, anche facendo la tara per i differenti ruoli e obiettivi politici.