Sul Financial Times, (e anche sul Sole, tradotto) Martin Wolf si occupa del “caso Spagna”, la presunta ribellione del premier Mariano Rajoy contro la tabella di marcia del cosiddetto risanamento fiscale. Come noto, Rajoy ha annunciato (per ora alla stampa, non ancora ufficialmente alla Ue) che Madrid perseguirà nel 2012 un saldo deficit-Pil del 5,8 per cento anziché del 4,4 per cento concordato, pur mantenendo fermo l’impegno del 3 per cento a fine 2013. Qui c’è molto da commentare, anche se la mossa spagnola non è esattamente una sorpresa.
Wolf apre ricordando che il nuovo trattato istitutivo del Fiscal compact poggia sulla premessa che la crisi è stata causata da indisciplina fiscale, e solo con la disciplina fiscale sarà possibile tornare alla virtù. Come si dice da tempo da queste parti, senza che ciò debba avere necessariamente un qualche peso, questo è palesemente falso, come rivedremo in chiusa di questo post. Ma ci sono altri problemi, nella formulazione del Fiscal compact. Ad esempio, il fatto che il limite del rapporto deficit-Pil, fissato allo 0,5 per cento, sia calcolato sul Pil corretto per il ciclo economico. Non fraintendeteci, il concetto è cosa buona e giusta perché evita (almeno in linea teorica) che si proceda a strette fiscali pro-cicliche, cioè che si finisca nella trappola (finora operante) in cui buchi di bilancio causati da scarsa crescita vengono colmati con strette fiscali che deprimono la crescita e causano nuovi buchi di bilancio, e così via.
Ma il problema, come sottolinea Wolf, diventa tragicamente metodologico: come si calcola il Pil potenziale, la grandezza necessaria a calcolare il deficit corretto per il ciclo? E soprattutto, a chi affidare il calcolo? Basta ricordare quanto accaduto a Spagna e Irlanda, che nel 2007 avevano (secondo stime del Fmi) rispettivamente un forte avanzo ed un pareggio strutturale. Ma subito dopo lo scoppio della crisi fu lo stesso Fmi a ricalcolare il tutto, e scoprire che non c’era un surplus bensì forti deficit strutturali (qualcosa del genere è accaduta anche al Regno Unito, ed è servita a spernacchiare il buon Gordon Brown). E quindi la domanda sorge spontanea: chi deve calcolare il deficit-Pil corretto per il ciclo, cioè (il che è lo stesso) il Pil potenziale di un paese? Non lo sappiamo ancora, ma c’è un’alta probabilità che avremo contestazioni ed “interpretazioni autentiche” su base nazionale ad ogni stormir di Pil, riproducendo gli stessi circoli viziosi già visti in passato. Come scrive impeccabilmente Wolf,
«Considerate le implicazioni legali e politiche. Dei governi eletti accetterebbero le stime approssimative di tecnocrati irresponsabili? E come, inoltre, i giudici giungerebbero ad una decisione? Dovrebbero valutare i meriti di modelli econometrici alternativi? Poiché enormi cambiamenti nelle stime dei deficit strutturali sono altamente probabili, il governo come si adatterebbe? Mettere nella legge un concetto non misurabile sembra folle»
Si tratta di una problematica non dissimile da quella che ogni paese, incluso il nostro, si troverà ad affrontare quando avrà recepito in Costituzione il dettame del Fiscal compact relativo al pareggio (o equilibrio) di bilancio, a ben vedere. Chi misurerà gli scostamenti? Un’agenzia parlamentare (come potrebbe essere il servizio Bilancio) o un’entità esterna? E sulla base di quali parametri “mobili”? Sembra facile, mettere una grandezza nella carta fondamentale di un paese. Ma non lo è.
Tornando al “caso-Spagna”, Wolf ricorda che il paese è stato messo in crisi da un enorme squilibrio delle partite correnti, causato da afflussi di capitali che, lungi dal premiare (come invece si afferma nei libri di testo) i settori con maggior potenziale di crescita di valore aggiunto, si sono scaricati sul settore più antico del mondo, l’immobiliare. Se accadesse di nuovo, il governo coinvolto si troverebbe ancora una volta a fare il pieno di entrate fiscali, e passerebbe quindi il test del Fiscal compact. Si potrebbe obiettare che, oltre all’aspetto dei conti pubblici, le autorità europee individuerebbero lo squilibrio delle partite correnti, come mostra un paper pubblicato il mese scorso. Ma in quest’ultimo caso pare contino solo i deficit e non i surplus, quindi nessuno chiederebbe alla Germania di contribuire a stimolare la crescita dell’area. Come osserva maliziosamente Wolf, ” l’Eurozona è in guerra con la contabilità in partita doppia”, nel senso che un deficit delle partite correnti è un surplus visto allo specchio. Ma non quando riguarda la Germania. E se proprio non volete accusare la Germania per il suo “virtuoso” surplus commerciale, guardate il problema dal versante speculare dei flussi di capitali: malgrado i vertici ed i proclami, sul piano della vigilanza bancaria transfrontaliera non abbiamo fatto mezzo passo avanti, come commenta impeccabilmente Fabio Scacciavillani su nFA.
Come finirà? Lo scopriremo presto. E sarà molto interessante perché vedremo se, anche nel caso spagnolo, torneranno i moralismi che hanno caratterizzato la gestione della crisi greca. Sono lazzaroni, non lavorano abbastanza ore, mangiano a sbafo, vanno in pensione troppo presto. Ricordate? Il rischio è che, proseguendo di questo passo, finiremo col dirlo di pressoché tutti i paesi dell’Eurozona. Senza dimenticare che, dopo l’annuncio dell’ammutinamento di Rajoy, già “qualcuno”, tra le file tedesche bruxellesi, aveva replicato, con il solito soffio felino stizzito, che “tutti sanno che i conti spagnoli sono truccati”. Quanto aveva ragione lo zio Albert: “Follia è continuare a ripetere le stesse azioni attendendosi ogni volta un esito differente”. Altra lezione che non abbiamo appreso.