Azioni e crediti hanno proseguito il proprio rialzo in settimana, col mercato statunitense a nuovi massimi di ciclo. Oro e obbligazioni segnano pesanti correzioni, ed il dollaro riprende forza.
Le correlazioni stanno quindi venendo meno, rispetto ad un periodo protratto in cui contava solo il movimento “bipolare” risk-on contro risk- off. Ci si chiede se l’andamento dei mercati obbligazionari, con il vistoso rialzo dei rendimenti avvenuto negli ultimi giorni (pur se ancora su livelli storicamente molto bassi), segni la fine della reflazione attuata dalle banche centrali, spingendo alla fine al ribasso azioni e crediti. In realtà, il movimento su oro e obbligazionario può essere visto come conferma dell’arretramento dei timori di rischi di ricaduta in recessione. In settimana, il meeting della Federal Reserve ha per molti aspetti confermato questa chiave di lettura, oltre alla elevata probabilità che le manovre di easing quantitativo siano per il momento terminate.
Il mercato pare essersi risvegliato bruscamente a questa realtà, ed ha quindi spinto al rialzo i rendimenti obbligazionari, unitamente all’irripidimento delle curve in tutto il mondo. La stessa caduta dell’oro può essere ricondotta a disinvestimenti causati dal venir meno delle prospettive di ulteriore espansione monetaria, ed al rischio inflazionistico teoricamente ad essa connesso. Le stime di consenso sulla crescita non sono tuttavia in rialzo, anzi: alcune case d’investimento hanno effettuato lievi revisioni al ribasso delle attese di crescita. Quello che pare contare, quindi, non è la previsione di accelerazione della crescita ma la prospettiva di stabilità e riduzione dei rischi di ricaduta in recessione, che guida al rialzo i mercati rischiosi.
L’andamento dei rendimenti obbligazionari suscita interrogativi circa l’estensione che tale movimento potrà raggiungere, e su quando e come il rialzo dei rendimenti potrà diventare una minaccia per gli attivi rischiosi. Il rialzo, per quanto repentino e violento rispetto al periodo in cui si è realizzato, resta comunque coerente con la stabilizzazione del quadro macroeconomico e con la crescita attesa. Una spinta all’ulteriore rialzo dei rendimenti obbligazionari potrebbe provenire da una crescita significativamente più forte, oltre che da inflazione e/o attese inflazionistiche; circostanze che indurrebbero gli investitori a modificare le aspettative in direzione di una precoce normalizzazione delle condizioni monetarie da parte della Fed, ben prima del 2014. Al momento, tuttavia, questo non è lo scenario di consenso, che resta invece uno di ridimensionamento dell’inflazione, oltre che (negli Stati Uniti) di un inizio 2013 segnato da una forte stretta creditizia indotta dalla scadenza di importanti misure di stimolo. Il rafforzamento del dollaro nell’ultimo mese, ed il suo sganciamento dagli attivi rischiosi (finora il dollaro tendeva ad indebolirsi nelle fasi di ripresa dei mercati azionari) sembrano suggerire una “fuga verso la qualità” rappresentata dal biglietto verde. La risposta potrebbe invece essere legata alla percezione di differenti fasi nei cicli espansivi di politica monetaria, con la Fed che avrebbe terminato, la Bce che si troverebbe ancora a metà strada con le operazioni di fornitura straordinaria di liquidità e la Bank of Japan che solo ora starebbe avviando una vera lotta alla deflazione. Questa considerazione, in via di semplificazione, “spiegherebbe” il movimento del dollaro.
Sul mercato del reddito fisso, la settimana ha visto uno dei più violenti movimenti di rimbalzo dei rendimenti degli ultimi anni, con i Treasury statunitensi in prima fila. Ciò che sorprende non è tanto il rialzo dei rendimenti (visto che finora il reddito fisso si era cocciutamente rifiutato di “confermare” il rialzo dei mercati azionari, restando su livelli di rendimento compatibili con condizioni economiche ancora depresse), quanto il fatto che ciò sia accaduto in una settimana in cui il maggior evento è stato un meeting della Fed il cui esito ha largamente confermato le attese. Ora i tassi impliciti sui Fed Fund scontano una stretta monetaria precoce rispetto alle indicazioni fornite a gennaio. Ma è opportuno ripetere che, senza esplicite indicazioni di ritiro dello stimolo monetario da parte delle banche centrali, anche considerando la tendenza dei mercati ad amplificare i movimenti, appare poco probabile che il movimento di rialzo dei rendimenti possa andare molto più in là di quanto già realizzato.
I mercati azionari hanno proseguito nella loro ascesa, toccando nuovi massimi post-crisi. Vi sono evidenze aneddotiche di rafforzati acquisti di non residenti sul mercato azionario giapponese, che tuttavia finora non hanno invertito le condizioni di debolezza relativa di quel mercato rispetto a quelli globali, e che sono verosimilmente da porre in essere al forte deprezzamento dello yen. Allo stato attuale resta piuttosto problematico scommettere sul mercato azionario di un paese il cui Pil nominale sta calando.
Un’altra buona settimana per i crediti, con nuovi minimi da inizio anno per gli spread, realizzati praticamente su tutte le classi di attivi. L’indice VIX, al livello di 14, si trova al minor livello da un anno, grazie alla significativa riduzione delle attese di volatilità macroeconomica. Il rialzo dei rendimento sui titoli di stato è giustificato sul piano fondamentale e di fatto positivo per i crediti, con gli spread che dovrebbero continuare a ridursi.
Sul mercato dei cambi, accantonati per ora i rischi di una nuova crisi sovrana, le tradizionali forze della politica monetaria stanno determinando movimenti sostanziali delle valute, come detto sopra. E’ vero che ogni ascesa consistente nei rendimenti in dollari guiderebbe il biglietto verde ad apprezzarsi contro altre divise a basso rendimento, quali euro e yen, ed inizialmente anche contro alcune valute ad alto rendimento (real brasiliano, dollari australiano e neozelandese), ma allo stato ci sono pochi elementi per ritenere che la forza mostrata in marzo dal dollaro possa persistere. Negli Stati Uniti, la crescita non è abbastanza robusta per giustificare un cambio di tono e linguaggio da parte della Fed in tempi ravvicinati, soprattutto perché la Fed è consapevole dell’effetto di stretta fiscale che si abbatterà sull’economia del paese a inizio 2013. In Europa, il successo delle aste straordinarie di liquidità della Bce sta inducendo il ritorno nell’area di capitali internazionali, e ciò dovrebbe almeno ridurre gli incentivi a vendere euro causati dal forte aumento di liquidità. Anche i rendimenti del Bund si sono uniti a quelli in rialzo sui Treasury, confermando che perlomeno ci troviamo di fronte ad una stabilizzazione del quadro di crescita.
Le materie prime sono in leggero ripiegamento in settimana, guidate da energia e metalli preziosi. L’oro arretra di un ulteriore 1,5 per cento, espresso in dollari, portando la correzione dal recente picco a circa l’8 per cento. Gli acquisti degli investitori finanziari in oro sono stati motivati soprattutto dall’esigenza di proteggersi dal potenziale inflazionistico implicito nella reflazione attuata delle banche centrali. Il fatto che la Fed abbia per il momento escluso la probabilità di un QE3 ha indotto tali investitori ad alleggerire le posizioni sull’oro. Vi è tuttavia una seconda categoria di investitori sul metallo giallo, quelli “fisici”, soprattutto famiglie e banche centrali dei paesi emergenti, con finalità di investimento strutturale e quindi meno sensibile alle oscillazioni giornaliere dei mercati, la cui domanda dovrebbe restare sostenuta nel medio termine.