(Post tecnico-finanziario. Non chiamate gli economisti, qui non possono aiutarvi)
Ieri il CEO di JPMorgan, l’onnipotente Jamie Dimon, ha confessato che la sua banca dalla fine di marzo ha sofferto perdite per 2 miliardi di dollari sul suo portafoglio sintetico di credito, riconducibili all’attività della struttura londinese nota come Chief Investment Office (CIO). Alcuni utili da realizzo di posizioni ridurranno la perdita, ma l’unità dovrebbe chiudere il primo trimestre con una perdita di 800 milioni di dollari, rispetto a precedenti previsioni che ipotizzavano un utile di 200 milioni di dollari. Da una prima, sommaria analisi, pare che l’operazione sia frutto di un movimento avverso della cosiddetta base e del rischio ad essa connesso, che in finanza ne ammazza più della spada.
Questa almeno è la valutazione di Felix Salmon. La base in questione è la differenza tra lo spread espresso dall’indice iTraxx Investment Grade ed un portafoglio di obbligazioni aziendali sottostanti. Il primo è un indice di credit default swap, espressivo del rischio su un paniere di emittenti. In pratica, se questa lettura sarà confermata, JPM avrebbe venduto protezione sull’indice, realizzando una posizione di rischio equivalente a possedere (cioè essere “lunghi”) il rischio-emittente di tale indice. Contemporaneamente, la struttura era “corta” (cioè aveva venduto allo scoperto) di alcune obbligazioni societarie.
In pratica, l’idea era quella di puntare su un restringimento degli spread sulla gamba “sintetica” (i Cds), ed un allargamento su quella “reale” (le obbligazioni). Una scommessa come tante. Forse il gestore del CIO, Bruno Iksil (noto nell’ambiente come “la balena bianca”) ha ritenuto che la base, da quel livello, potesse solo restringersi. Pare invece sia successo il contrario, e l’operazione ha inflitto alla struttura pesanti perdite di mark-to-market, cioè di fotografia dei prezzi del mercato in un dato momento.
Ma questa non è tutta la storia. Molti trader su crediti, nelle scorse settimane, avevano denunciato la condotta del trader di JPM come finalizzata a manipolare il mercato (quello che in gergo si chiama cornering), cioè a forzare i prezzi, tramite la propria azione, in direzione voluta. Il problema è che, per essere vincente, il cornering necessita che, quando si compie l’operazione di segno opposto, i prezzi reggano nella direzione sperata. Diversamente, l’intera costruzione crolla in testa al manipolatore, punendolo.
Alcune considerazioni spicciole: questa sembra una struttura (ed una tipologia di operazioni) create per aggirare la Volcker Rule, cioè la disposizione della legge Dodd-Frank che vieta il trading proprietario. Jamie Dimon può anche dire che si tratta solo di operazioni di copertura ma, se così fosse, l’entità delle perdite farebbe pensare che a gestire quel desk vi fossero alcuni squilibrati del tutto all’oscuro delle dinamiche di mercato. E sappiamo che questo non è ovviamente vero. E’ molto più probabile che questa fosse una forma di basis trading su vasta scala con annessa manipolazione del mercato.
Più inquietante il fatto che Dimon abbia segnalato la persistente “radioattività” di quelle operazioni: “E’ rischioso è lo sarà per un paio di trimestri”. Ora sarà interessante vedere se l’onnipotente Dimon (che ufficialmente pare fosse addirittura all’oscuro dell’operatività) riuscirà a sopravvivere a questo rovescio. Sembrano comunque confermarsi un paio di verità pressoché immutabili. La prima è che l'”innovazione” (tra molte virgolette) finanziaria è praticamente sempre in grado di battere la regolazione; la seconda che il potenziale di perdita insito in queste operazioni è quasi sempre molto elevato, ed in grado di sfuggire alla modellizzazione, oltre che molto spesso ai controlli interni. Se poi aggiungiamo la (eventuale) esplicita manipolazione del mercato, il cerchio si chiude.
Il problema, per la politica, è come fare in modo che eventuali fallimenti di queste operazioni elusive della norma pesino solo sulle banche coinvolte e sui loro azionisti, e non sulla collettività. Diversamente, il mondo resterà costantemente sotto la spada di Damocle (o di Dimon, più specificamente) della finanza che privatizza gli utili e socializza le perdite. Ma sulla prognosi non saremmo ottimisti.