Puntualmente, come l’estate scorsa di questi tempi, torna il “dibattito” sulla riduzione delle festività, che il governo di turno starebbe per approvare “per far crescere il Pil”, come dice qualcuno che padroneggia in modo assai approssimativo la materia. Eppure, basterebbe guardare i dati (che comunque servono a poco), per confutare le motivazioni da bar.
Ad esempio, l’Ocse (utilizzando le statistiche nazionali) accredita il lavoratore italiano nel 2011 di un totale di 1774 ore effettivamente lavorate, contro le 1413 del tedesco e (ohibò!) le 2032 di un greco. Quindi il problema non pare essere la scarsa presenza sul lavoro. Forse qualcuno potrebbe anche arrivare alla conclusione che il punto non sta nella quantità bensì nella qualità, cioè (ad esempio) nel modo in cui queste ore si combinano con la dotazione di capitale dell’economia e con altre variabili (come la qualità della pubblica amministrazione), per giungere all’output finale.
Quindi il punto (pare) non essere quello del semplice numero di ore lavorate per singolo lavoratore. Si potrebbe, ad esempio, discutere sulle modalità per innalzare il tasso di partecipazione della popolazione alla forza lavoro, contando il totale delle ore lavorate da una collettività nazionale. Da quel dato emergerebbe, con tutta probabilità, che il nostro paese può certamente fare meglio, avendo un tasso di partecipazione alla forza lavoro tra i più bassi d’Occidente (e non parliamo ovviamente del sommerso). Ma se le cose stessero in questi termini, sopprimere festività servirebbe a nulla.
Si può certamente discutere di flessibilizzazione delle modalità d’impiego della manodopera, ad esempio rimuovendo dai contratti collettivi le maggiori onerosità legate al lavoro festivo o in condizioni di giorni ed orari “non canonici”, ma pure quello sta lentamente ma inesorabilmente avvenendo. E quindi, di che parliamo? Come abbiamo già scritto, l’ipotesi è quella di far passare un taglio del costo del lavoro attraverso la soppressione di uno o più giorni di festività, che non dovrebbero essere monetizzate. In questo modo si spingerebbe al ribasso il costo del lavoro, a parità di ogni altra condizione (prescindendo ovviamente dalla esistenza di una domanda per i beni prodotti dalle imprese), recuperando competitività in un paese che non dispone di una propria moneta. Sarebbe un modo surrettizio per tentare di raggiungere lo stesso risultato di un taglio delle retribuzioni nominali imposto per legge. Una struttura retributiva resa flessibile verso il basso servirebbe (anche qui, rigorosamente ceteris paribus) ad evitare che domanda e offerta di lavoro si aggiustino sulla quantità, cioè con un aumento di disoccupazione.
Ecco, se queste sono le motivazioni, basta presentarle, serenamente e pacatamente. Ma ogni altro tentativo di imporre soluzioni con argomentazioni del tutto inesistenti, come quella sugli italiani che “lavorano poco” (forse è vero, ma non emerge dal numero di ore bensì forse da contesti aziendali disfunzionali e demotivanti, chissà), sembra partire dal presupposto di aver di fronte una massa di tonti da raggirare col gioco delle tre carte. Che a ben pensare, soprattutto osservando gli orientamenti elettorali negli ultimi lustri, potrebbe essere una strategia vincente.
“Work smart, not hard. It’s my philosophy, boss” – Gregory House, M.D.