Nel suo consueto editoriale del sabato su Repubblica, il professor Alessandro Penati prende posizione contro questa austerità, che ci sta inesorabilmente legando una corda al collo. Oltre alla pars destruens (no all’austerità), Penati aggiunge una pars construens, che tuttavia appare della stessa sostanza di cui sono fatti i sogni.
Penati apre osservando quel che è sotto gli occhi di tutti, o quasi:
«È la “spirale austerità-recessione”: si stabiliscono obiettivi per il debito; ma la recessione è peggiore del previsto; per cui si mancano gli obiettivi; quindi si aumentano le tasse, aggravando la recessione; e si ricomincia da capo. Secondo l’Economist, sarà la Francia la prossima a esserne colpita. Eppure, governi e istituzioni europee insistono nel dare priorità all’austerità»
Penati dovrebbe fare uno sforzo aggiuntivo, e dire che la spirale austerità-recessione si consegue anche tagliando la spesa, non solo alzando le tasse, nella misura in cui i risparmi di spesa vengano destinati a ridurre il deficit e non la pressione fiscale. Concetto di una banalità disarmante, ma che ancora sembra sfuggire a molti.
Il docente della Cattolica prosegue con una definizione di spread, e di ciò che tale spread sottende, che sottoscriviamo completamente:
«Si guarda allo spread come indicatore infallibile dello stato di crisi, ma è solo il segnale delle aspettative a breve sullo squilibrio tra domanda e offerta di Btp»
Ineccepibile. Tutto dipende non dalla qualità dell’aggiustamento fiscale ma dal fatto che i mercati continuino a riservare una domanda, auspicabilmente elevata, per i nostri titoli di stato. E’ il concetto di prosciugamento e reidratazione che vi stiamo martellando da sempre, in contrapposizione alla chiave di lettura teutonico-moralistica di chi crede che lo spread sia in realtà la certificazione di vizio o virtù fiscale. Lo spread resta elevato anche in presenza di aggiustamento qualitativo e quantitativo di finanza pubblica, perché (e sinché) i mercati continuano ad assegnare una probabilità non nulla all’evento “uscita dall’euro” di un paese.
Penati prosegue con il giudizio sul tipo di aggiustamento non recessivo che servirebbe, e la prende larga:
«Il controllo della spesa pubblica è indispensabile. Ma è solo uno degli strumenti per risolvere la crisi, non il fine dell’azione di governo. I vincoli rigidi di bilancio sono imposti dalla Germania, a ragione, che non si fida più dopo aver visto che con l’euro i risparmi tedeschi andavano a finanziare la spesa pubblica improduttiva degli Stati in crisi o le loro bolle immobiliari»
Qui c’è qualche problema di consecutio temporum. La Germania non si fida più ora, a bolle scoppiate e buchi di bilancio pubblico conclamati ed aggravati dalla austerità e dal credit crunch, ma le banche tedesche erano felicissime di comprare titoli di stato spagnoli, illo tempore, visto che la Spagna, pur avendo una terrificante bolla immobiliare ed un mostruoso (dell’ordine del 10 per cento di Pil) deficit delle partite correnti, aveva un basso indebitamento pubblico ed addirittura un avanzo di bilancio statale. Non ci risulta che, fino a tre anni addietro, i tedeschi levassero il ditino contro Madrid. Se è per quello, non lo levarono neppure contro Atene fino a 6-7 anni addietro, quando lo spread tra titolo di stato decennale greco e Bund era di soli dieci punti-base. Ma non divaghiamo, perché stiamo per entrare nella pars construens di Penati, o meglio in quello che è un evidente sogno.
Ci vuole una netta cesura con le politiche attuali, per rendere il debito sostenibile con la crescita, dice Penati, ma la crescita non può venire da iniziative old fashion quali le infrastrutture. Che fare, quindi?
«Due le cose da fare. Sostenere i tagli di capacità nei tanti settori e aziende in declino (invece di cercare di tenerle in vita) e finanziare con un nuovo sistema di sicurezza sociale lo spostamento del lavoro verso settori a più elevata produttività o crescita (sperando che i sindacati lo capiscano). E, invece di parlare di patrimoniali, tagliare in modo sostanziale le imposte su capitale e lavoro (finanziandole anche con l’eliminazione di ogni sussidio): ci siamo dimenticati che non si investe senza aspettative di maggiori guadagni. Una specie di Piano Marshall per la riconversione del sistema produttivo italiano.
Il deficit pubblico esploderebbe. Ma se io fossi Monti, userei la mia credibilità per proporlo ai tedeschi, in cambio di un programma concordato che dia loro il potere di verificare che il deficit finanzi effettivamente la ristrutturazione dell’Italia e non il rinvio di tagli e della lotta agli sprechi. Se commissariamento ha da essere, che lo sia per una buona ragione»
Proposta suggestiva, non trovate? Di fatto, crea deficit attraverso una enorme defiscalizzazione. “Così sono capaci tutti!”, già vi sentiamo obiettare. In effetti, non avete tutti i torti. Ma soprattutto, dovremmo preliminarmente valutare se la Germania accetterebbe una simile proposta, che creerebbe un sistema di forti concorrenti per le imprese tedesche, almeno in astratto. Ma anche scontando la componente onirica della proposta di Penati, resta il fatto (ragionando per opposto) che la Germania, oltre a non volere concorrenti per il proprio sistema, non dovrebbe neppure volere partner commerciali distrutti, perché in quel caso perderebbe fondamentali mercati di sbocco, e addio lebensraum.
Quest’ultima è l’argomentazione che ci fa ben sperare che, alla fin fine, una soluzione alla crisi del’Eurozona si troverà, e che i tedeschi non sono stupidi come li immaginiamo, a livello di pensiero strategico.
Almeno, speriamolo. In attesa della patrimoniale sui sogni.
P.S. Forse rapiti nell’estasi del sogno, i titolisti di Repubblica hanno in effetti dato al pezzo di Penati un titolo mostruosamente keynesiano. Si attende replica dei due liberisti puri e duri che il giornale annovera tra i propri editorialisti.