Regno Unito, il lungo coma e l’inflazione

Qui sotto, un grafico tratto da Alphaville che parla (anzi, urla) da solo: l’andamento del Pil britannico dopo i maggiori episodi recessivi degli ultimi novant’anni circa. Come si nota, il profilo della “ripresa” post crisi del 2008 è desolatamente piatto: proprio non c’è modo di risollevare l’economia. Che fare, quindi? E cosa è andato storto?

Sul banco degli imputati c’è la politica fiscale del governo, considerata inutilmente restrittiva, ma le evidenze non sono univoche. Secondo alcuni non sarebbe in atto alcuna stretta fiscale, secondo altri si starebbe invece scioccamente sopprimendo gli stabilizzatori automatici per puntare al pareggio di bilancio proprio nel momento in cui l’economia resta estremamente debole, sia nel comparto manifatturiero che in quello delle costruzioni. Come che sia, il rapporto deficit-Pil strutturale del Regno Unito, cioè corretto per il ciclo economico, quest’anno si trova intorno al 3,5 per cento. Per fare un esempio, il deficit-Pil strutturale italiano quest’anno sarà in pareggio.

Ed è qui che entra in gioco la politica monetaria: dopo aver acquistato 375 miliardi di sterline in titoli di stato, la Bank of England si trova ad una svolta esistenziale: l’arrivo del canadese Mark Carney alla guida dell’istituto di emissione britannico, dal prossimo primo luglio, pare destinato a coincidere con un cambio del mandato istituzionale della banca centrale. Le avvisaglie di questo cambiamento epocale ci sono già state poco più di due settimane addietro, quanto l’attuale governatore, Mervyn King, ha comunicato che le previsioni di inflazione assegnano una probabilità del 50 per cento allo sforamento del tetto del 2 per cento di inflazione, su un orizzonte di due anni. Uno sforamento previsionale molto contenuto, sia chiaro: solo tre decimi di punto percentuale, ma il fatto che King abbia detto di non avere intenzione di agire per ricondurre l’inflazione entro il tetto “di mandato”, ha scatenato il mercato, causando due fenomeni largamente prevedibili: in primo luogo il forte aumento di attese inflazionistiche espresso dai titoli di stato indicizzati al costo della vita (il cosiddetto breakeven inflation rate, vedi altro grafico qui sotto); ed il conseguente, violento deprezzamento della sterlina, come ci si attende da un paese che manifesta di accettare un gradino di inflazione.

Sfortunatamente, il deprezzamento della sterlina pare avere scarso o nullo impatto sul saldo di bilancia commerciale britannica, forse perché la base manifatturiera del paese è nel complesso esigua ed il grosso del commercio estero britannico passava e passa dai servizi finanziari, che ora sono in ripiegamento. Come che sia, si attende con ansia la formalizzazione del nuovo mandato della Bank of England, offerto sul piatto d’argento allo “sperimentatore” Carney. E’ probabile che la banca centrale passi ad una politica di comunicazione simile a quella della Fed, quella basata sulla cosiddetta forward guidance, in cui cioè la banca centrale dice ai mercati: “tranquilli, i tassi resteranno a zero o prossimi a zero ancora per molto tempo, ad esempio fin quando il Pil nominale non avrà superato del dieci per cento il livello pre-crisi, o la disoccupazione non sarà tornata sotto il cinque per cento o giù di lì”.

A questo punto, sulla scorta di un simile “impegno”, la reazione del mercato di solito è quella di innalzare le attese di inflazione. Secondo i libri di testo, quando i tassi nominali restano molto bassi e le attese di inflazione si innalzano, i tassi reali attesi scendono sino a diventare negativi. Ciò stimola o dovrebbe stimolare la crescita economica. Ma c’è un ma: se il canale bancario non trasmette all’economia reale i tassi reali negativi, lo stimolo espansivo muore sul nascere o resta fortemente depotenziato. E questo è (anche) il problema del Regno Unito, oggi: le banche non prestano abbastanza alle imprese. Per questo è stato creato uno schema gestito dalla banca centrale, il Funding for Lending Scheme, (FLS, qui il meccanismo di funzionamento) in cui le banche commerciali possono prendere a prestito dalla banca centrale a condizioni molto vantaggiose, purché espandano i propri prestiti a famiglie ed imprese entro un dato periodo. Finora, gli effetti del FLS sono stati nel complesso modesti.

La stessa Bce starebbe studiando questo schema, nel tentativo di rivitalizzare il credito in alcuni paesi dell’Eurozona, ma al momento pare predomini lo scetticismo. E con ragione, visto che prima di agire sul versante del credito e della ripulitura dei bilanci delle banche occorre almeno stabilizzare l’economia.

Al di là di queste problematiche, resta il fatto che accettare un piccolo gradino d’inflazione serve a ridurre l’onere reale del debito. Sarebbe utile estendere questo nuovo approccio di communication policy e forward guidance anche alla Banca centrale europea, e pilotare quindi anche l’Eurozona verso l’accettazione di un lieve aumento di inflazione, per evitare il peggio. Ad oggi questa appare purissima eresia, vista anche la lettera del mandato istituzionale della Bce, ma l’Eurozona ha sinora dimostrato di essere meno dogmatica di quanto comunemente si pensi, e la sapienza tecnocratico-politica di Mario Draghi è fuori discussione. Soprattutto, ad un certo punto l’Eurozona rischia di trovarsi con le spalle al muro, con i paesi del Mediterraneo vittime di crescenti pressioni deflazionistiche che rischiano di risultare esiziali. In quel caso la Bce dovrebbe agire per reflazionare, al momento non è chiaro come: di certo non imponendo tassi negativi sui depositi, perché destabilizzerebbero le banche, costringendole ad alzare ulteriormente il costo del credito per evitare il dissesto.

Comunque vada, siamo sempre più prossimi ad un nuovo momento dirimente in Eurozona. Si comincia con l’allentamento della stretta fiscale, pare. Ma anche così resterà ancora moltissimo da fare, per evitare il disastro.

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Breakeven Inflation Rates a 5 e 10 anni
Breakeven Inflation Rates a 5 e 10 anni

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